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Introduzione

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Impatti: come mai se ne parla solo ora?

Non è sempre stata una cosa automatica e naturale accomunare la nostra Terra agli altri corpi del Sistema Solare nel loro destino di "bersagli cosmici", ed il motivo principale (non certamente l'unico) va probabilmente ricercato nel fatto che le tracce di tali eventi non sono sul nostro pianeta altrettanto evidenti quanto quelle rinvenute sulle altre superfici planetarie; una lacuna, però, che si sta rapidamente colmando dal momento che, ormai, i ricercatori hanno localizzato sulla superficie terrestre, riconoscendole come originate da un impatto, oltre 160 strutture di varie età, forme e dimensioni ed altre sono destinate ad aggiungersi all'elenco grazie al progredire e all'affinarsi delle tecniche di individuazione.
E' certamente vero che, escludendo la Luna, la conoscenza delle superfici planetarie e l'individuazione su di esse dei segni di impatto è frutto del progresso tecnologico raggiunto nella seconda metà di questo nostro secolo e dunque fino a qualche decennio fa non si aveva a disposizione molto materiale per poter ritenere che il meccanismo degli impatti fosse una caratteristica generale di tutti i corpi del Sistema Solare, ma è altrettanto vero che ci si poteva giungere per altre strade, utilizzando altri indizi a nostra disposizione…
Naturalmente sto scherzando: ho semplicemente espresso un pensiero che talvolta si affaccia alla nostra mente allorché consideriamo le circostanze storiche che hanno portato a qualche scoperta o invenzione e ci chiediamo come mai non ci sia giunti prima, vista l'evidenza delle prove e la banalità delle soluzioni. Non è una novità che, una volta che si è trovata una risposta ad un quesito, immediatamente si scopra come fosse possibile giungervi anche attraverso altre strade, magari meno faticose: non è forse vero che anche in matematica i problemi risolti sono sempre banali?
Ed è proprio quanto si rischia di fare nel caso si voglia considerare il problema degli impatti di oggetti provenienti dallo spazio sulla superficie del nostro pianeta e, forti delle conoscenze attuali, ci si chieda come mai non siano stati letti in modo adeguato gli indizi da molto tempo a disposizione non solo degli scienziati ma anche dell'uomo della strada.

Da quando l'osservazione del cielo ha potuto avvalersi dei primi strumenti ottici in grado di svelarci particolari fino ad allora impensabili, gli studiosi dei fenomeni celesti non hanno potuto ignorare la muta testimonianza della superficie lunare, ricoperta da un gran numero di formazioni crateriche più o meno imponenti, che in alcuni casi si sovrappongono o si intersecano, rilevabili anche in quelle vaste zone più scure e apparentemente pianeggianti denominate "mari lunari" e che ad una prima fugace osservazione potrebbero sembrarne prive. Qualcosa a questo proposito potrebbe dirci il grande Galileo Galilei, che nel 1609 rivolse verso la Luna il suo telescopio e scoprì come l’immutabilità e la perfetta sfericità degli astri, considerata regola fondamentale ed irrinunciabile della scienza astronomica ufficiale, naufragasse miseramente già sul corpo celeste a noi più vicino.

Appennini lunari.
Si possono agevolmente intravedere alcuni dei crateri di ogni dimensione che costellano la superficie del nostro satellite.
appennini lunari

E’ pur vero che l’interpretazione di tali strutture crateriche sul nostro satellite quali conseguenze di collisioni con oggetti provenienti dallo spazio interplanetario ha dovuto per lungo tempo contendere il campo all’ipotesi endogena, riconducibile (a grandi linee) a manifestazioni analoghe a quelle dei vulcani terrestri, ma dopo che, nel 1794, E.F.F. Chladni dimostrò la possibilità della caduta sulla superficie della Terra di "sassi" provenienti dal cielo e si iniziò la ricerca di tali reperti, l'idea impattiva avrebbe dovuto uscire vincitrice, ed invece…

Nei primi anni del XIX secolo, con i fermenti suscitati dalla scoperta dei primi asteroidi e l'idea lanciata da Olbers del pianeta distrutto quale origine di Cerere e compagni, sembrò prendere consistenza la consapevolezza che ci si trovava in una situazione tutt'altro che tranquilla, con la possibilità che persino gli stessi pianeti potessero subire urti anche di estrema violenza.
Ma quasi subito l'ipotesi di Olbers venne abbandonata in favore dell'idea che gli asteroidi fossero non i resti di un pianeta bensì i mattoni che avrebbero dovuto costruirlo ed in tal modo la Terra riacquistò nuovamente la sua veste di luogo sicuro, indenne da rischiosi coinvolgimenti in urti cosmici e da cadute di pericolosi oggetti astronomici, tranne che per il verificarsi sporadico dei fenomeni meteoritici che, fino a prova contraria, non avevano mai causato grandi danni…
Nulla di strano, dunque, che fosse considerata per lo meno una fissazione l'idea dell'Ing. D.M. Barringer di attribuire ad una origine extraterrestre l'enorme buca di oltre un chilometro di diametro presente nel deserto dell'Arizona (oggi nota con il nome di Meteor Crater o anche Barringer Crater), tanto più che gli scienziati chiamati a pronunciarsi su di essa l'avevano catalogata come una struttura di origine vulcanica.
E vulcanica doveva sicuramente essere l'origine degli stessi crateri lunari, anche se vi era ancora chi si ostinava con tutte le sue energie a proporre un meccanismo collisionale...
Non è certamente mia intenzione ripercorrere passo passo le dispute, le motivazioni e le prove inconfutabili prodotte dai contendenti in favore dell'una e dell'altra tesi, ma solamente sottolineare come il cammino della comprensione dei fenomeni impattivi non sia stato certamente lineare e pacificamente accettato dalla comunità scientifica.
Barringer stesso, a causa dell'inadeguatezza dei mezzi e dello scarseggiare dei fondi, dovette, nel 1929, rinunciare alla sua idea di estrarre metallo da quel cratere acquistato 27 anni prima con la certezza di trasformarlo in un fantastico giacimento minerario.
Morì quello stesso anno e fu proprio per l'intenso lavoro da lui profuso che venne deciso di dare il suo nome a quel cratere, oggi considerato quasi un monumento nazionale.

Meteor Crater

Veduta del Meteor Crater (Flagstaff - Arizona) immagine sempre presente quando si sente parlare di impatti...

Un nodo fondamentale da risolvere era l'identificazione di una traccia inconfutabile, una sorta di marchio di fabbrica che potesse far accantonare le spiegazioni vulcaniche o tettoniche avanzate per giustificare la presenza di quelle strutture circolari sospettate di essere segni di un impatto.
Ma per questa importantissima tappa si dovrà aspettare, negli anni 60, l'opera di Eugene Shoemaker che, partendo dallo studio accurato del Meteor Crater (una sorta di… vendetta storica), suggerì quali potessero essere i segni distintivi in grado di far identificare la natura impattiva in una struttura terrestre.
Il colpo di grazia alle teorie endogene venne dato dall'esplorazione spaziale: la scoperta di formazioni analoghe ai crateri d'impatto terrestri anche su altri corpi celesti (Mercurio, Venere, Marte e, ultimamente, gli asteroidi ed i satelliti "visitati" dalla sonda Galileo e dalla NEAR) ha dato sempre maggior peso ed autorevolezza alla teoria impattiva ed alla sua validità in tutti i corpi del Sistema Solare.

Di fronte alla presenza generalizzata nel Sistema Solare di crateri d'impatto, un semplice ragionamento statistico, prima ancora di mettere sul piatto della bilancia la prova schiacciante costituita dall'identificazione di numerose strutture crateriche di sicura origine impattiva sulla superficie della Terra, conduceva a dover concludere senza ombra di dubbio che anche il nostro pianeta non poteva considerarsi immune dal verificarsi di urti con altri oggetti interplanetari.
Alla luce delle nuove scoperte nello studio dei Corpi Minori, studio che ha avuto un grandissimo incremento a partire dagli anni '70, l'intero Sistema Solare cominciava a mostrare un aspetto fino a quel momento considerato solamente di riflesso: tutti i corpi che assieme alla Terra compivano le loro orbite più o meno tranquille attorno al Sole erano parte attiva di un grande biliardo cosmico, nel quale l'urto tra i vari inquilini (noti in numero ogni giorno sempre maggiore grazie alle continue nuove scoperte) non era una eccezione, ma un meccanismo molto frequente (naturalmente considerando i tempi evolutivi caratteristici del sistema), tanto da poterlo considerare un elemento veramente importante, e per certi aspetti fondamentale, nell'evoluzione planetaria.

Mancanza di indizi a portata di mano, si sosteneva all'inizio; sembra invece, a dirla con franchezza, che ci sia sempre stata un grande ritrosia nel dover considerare i possibili disastrosi effetti di uno scontro cosmico con il nostro pianeta, coltivando la speranza di riuscire a garantirsi, con il silenzio, una maggiore tranquillità.
E come non concordare con il fatto che, tutto sommato, non è certamente gratificante il sentirsi sul capo la spada di Damocle di un possibile scontro con un oggetto interplanetario in grado, nel caso meno drammatico, di spazzare ogni forma di vita entro un raggio di alcune decine di chilometri dal punto di impatto?
Quando, poi, gli scenari che vengono presentati da autorevoli lavori scientifici assumono connotati quasi apocalittici, diventa allora certamente comprensibile e condivisibile il sentimento di preoccupazione che potrebbe affiorare anche nella mente dei più scettici…

Ma non è certamente con intenti allarmistici che intendo affrontare il fenomeno degli impatti, bensì cercando di individuare e approfondire la conoscenza dei meccanismi fisici correlati a tale fenomenologia, privilegiando in ogni momento la comprensione di questi fenomeni ai quali, nel bene e nel male, è profondamente legata la nostra stessa esistenza.

 

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