Ormai la quasi totalità degli
scienziati è concorde nel considerare fondamentalmente corrette le teorie cosmogoniche
del Sistema Solare cosiddette nebulari, cioè quelle che fanno riferimento ad
unorigine comune del Sole e dei pianeti, origine riconducibile al frazionamento ed
alla successiva evoluzione di ununica nebulosa primordiale.
Tali teorie sono concordi nell'ipotizzare un accrescimento graduale, con ritmi evolutivi
differenziati, sia del Sole che degli altri corpi celesti del Sistema Solare, ma non
sempre nell'analisi dei processi coinvolti in questa fase si ha uniformità di vedute,
soprattutto quando si tratta di dover identificare i meccanismi fisici responsabili
dell'innesco e del rapido sviluppo del fenomeno dell'accrescimento.
Fino a qualche decennio fa, poi, la visione dell'origine e dell'evoluzione del Sistema era
molto "tranquilla", nel senso che il meccanismo di accrescimento era inteso come
un aggregarsi graduale di polveri che andavano a formare corpi di dimensioni via via
crescenti, ed in questo quadro non era sufficientemente approfondita l'eventualità del
manifestarsi di violente interazioni tra gli oggetti che si andavano formando o che già
si erano formati. E' vero che, fin dall'inizio del secolo scorso, c'era la consapevolezza
della natura extraterrestre del fenomeno meteoritico, ma esso era considerato quasi un
meccanismo secondario, una caratteristica degenerativa occasionale dell'intero processo
evolutivo, idea di fondo alla quale è possibile a grandi linee ricondurre l'ipotesi di
Olbers (1805) del "pianeta distrutto" quale origine della Fascia Asteroidale (ed
è proprio a tale ipotetico pianeta scomparso che si attribuiva la paternità della caduta
delle "pietre dal cielo").In questa
visione, i crateri che costellano la superficie lunare costituivano un vero e proprio
mondo a parte, una sorta di eccezione che male si adattava all'idea del lento e graduale
aggregarsi dei planetesimali, tanto più che l'altra superficie planetaria conosciuta,
quella della nostra Terra, di tali strutture ne presentava ben poche
Il sorgere dei primi dubbi sul fatto che il meccanismo degli impatti fosse da considerare
solamente un evento eccezionale si può già intravedere, a mio parere, negli studi di K.
Hirayama sulle famiglie dinamiche degli asteroidi (il suo primo lavoro sull'argomento fu
pubblicato nel 1918), geniale intuizione che spalancherà la strada alle più complesse ed
approfondite elaborazioni successive.
L'idea corrente nell'ambiente scientifico era, però, quella che tale situazione anomala
caratterizzasse unicamente la Fascia degli Asteroidi, vista come una zona particolarmente
affollata e caotica, alla quale ben si adattava il ruolo di biliardo cosmico; per il resto
del Sistema Solare, invece, il modello era quello del perfetto meccanismo a orologeria che
si muoveva seguendo il rigore matematico racchiuso nelle leggi di Keplero.
Ad ogni modo, seppure lentamente, avanzava la consapevolezza che il meccanismo di
accrezione planetaria non doveva consistere unicamente nell'aggregarsi di polveri, ma
doveva prevedere la formazione di oggetti sempre più grandi che risultavano, quasi in un
meccanismo a gradini, dall'unione dei corpi della precedente generazione.
E questa crescita gerarchica doveva inevitabilmente prevedere che oggetti di dimensioni
ormai consistenti potessero scontrarsi, con la concreta eventualità che un tale contatto
risultasse distruttivo.
Oggi questa idea costituisce un punto fermo e irrinunciabile della planetologia.
Alla luce, poi, delle ultime conoscenze acquisite grazie alle missioni delle sonde
spaziali (Voyager, Pioneer, Galileo e NEAR per citare solo le missioni più
eclatanti
) ed alle simulazioni numeriche al computer (applicate in modo sistematico
anche per cercare di capire i meccanismi dinamico-evolutivi degli asteroidi, sulla scia
dell'idea di Hirayama), oggi c'è la certezza che il meccanismo degli urti tra i
planetesimali in via di formazione abbia giocato un ruolo cardine nei processi evolutivi
dell'intero Sistema Solare
Questo non significa solamente riconoscere che l'accrescimento dei planetesimali sia
avvenuto a seguito di "urti costruttivi", in grado cioè di non disperdere nello
spazio dopo l'impatto i materiali costituenti i corpi originari, ma accettare (e talvolta
richiedere espressamente per poter avanzare ipotesi plausibili in merito ad alcune
situazioni) la presenza di urti molto più energetici, veri e propri colossali "colpi
di biliardo" cosmici in grado di mettere a repentaglio la stessa stabilità fisica
degli oggetti già formati.
Fino alla prima metà degli anni '60 gli
scienziati, effettivamente, non avevano a disposizione molti dati per poter considerare
percorribile l'ipotesi di una azione così massiccia e generalizzata del fenomeno
impattivo nell'evoluzione dei corpi del Sistema Solare.
Gli stessi crateri lunari, considerato il loro elevatissimo numero e le ciclopiche
dimensioni di alcuni di essi, non venivano interpretati come vestigia di eventi impattivi
che avevano interessato il nostro satellite, ma si avanzavano spiegazioni meno traumatiche
e più vicine alle manifestazioni geologiche tipiche della Terra, ricorrendo ai fenomeni
vulcanici e alla ricaduta sulla superficie lunare dei massi che tali eruzioni avevano
violentemente scagliato in aria.
Storicamente fu proprio questa ipotesi endogena la prima ad essere proposta per rendere
ragione della superficie estremamente rugosa e irregolare del nostro satellite; nella sua
forma iniziale, tale idea si deve a R. Hooke che, nel 1665, propose che i crateri lunari
fossero dovuti all'esplosione di vapori o gas provenienti dal sottosuolo e raccoltisi
presso la superficie in gigantesche bolle.
Dopo di lui vi furono anche altre "variazioni sul tema", quale ad esempio
l'ipotesi mareale, che attribuì le formazioni lunari al consolidamento sulla superficie
di materiale proveniente dall'interno, sollecitato dinamicamente dall'attrazione
gravitazionale terrestre; oppure l'ipotesi vulcanica in senso stretto, secondo la quale
l'origine dei crateri lunari poteva essere identificata nell'attività di vulcani, anche
se morfologicamente diversi da quelli terrestri.
Accanto ai sostenitori di questa visione endogena (e talvolta in acceso contrasto con
essi) vi era però anche chi sosteneva che si potesse ricondurre la morfologia
superficiale del nostro satellite all'azione dirompente di proiettili cosmici provenienti
dallo spazio interplanetario; la paternità di tale ipotesi meteoritica è attribuibile a
F. von Gruithuisen (1829) e ad R.A. Proctor (1873).
Per molti anni le due differenti visioni si sono contese, anche aspramente, il campo,
finché non è stata da tutti compresa e accettata l'innegabile presenza e la fondamentale
importanza del ruolo degli impatti in tutta la storia del Sistema Solare.
E gran parte del merito va senza dubbio attribuita alle missioni spaziali che, come si
diceva poc'anzi, ci hanno servito su un piatto d'argento l'evidenza che tutte le superfici
dei pianeti e dei satelliti (e non solo di quelli appartenenti al cosiddetto Sistema
Solare interno) sono caratterizzate dalla presenza di una fitta craterizzazione.
Limitandoci unicamente ai corpi celesti a noi più vicini, ricordiamo che la scoperta dei
crateri su Marte è dovuta alle osservazioni del Mariner 4 nel 1965, mentre nel 1971
Mariner 9 mostrò la craterizzazione dei due satelliti marziani Phobos e Deimos.
La craterizzazione di Venere, da sempre nascosta dallo spesso strato di nuvole che riveste
il pianeta, è stata rivelata per la prima volta nel 1972 grazie ad osservazioni radar,
mentre quella di Mercurio ci è nota in seguito alle fotografie inviate nel 1974 dalla
sonda Mariner 10.
E non si può, a proposito del contributo delle sonde spaziali, non accomunare nel ricordo
i meravigliosi tour delle due sonde Voyager (lanciate nel 1977), le fantastiche immagini
inviateci dalla Galileo (la cui missione è iniziata il 18 ottobre 1989) durante i suoi
incontri ravvicinati con il sistema satellitare di Giove e con gli asteroidi Gaspra e Ida
ed il panorama non meno spettacolare dellasteroide Mathilde, mostratoci dalla sonda
NEAR che, partita il 17 febbraio 1996 con destinazione Eros, è dal 14 febbraio 2000 in
orbita intorno all'asteroide.
Tutte queste immagini provano senza ombra di dubbio che il fenomeno della craterizzazione
è presente in tutti i corpi del Sistema Solare e che l'origine impattiva debba esserne
considerata la causa primaria. Se per spiegare la craterizzazione dei corpi maggiori,
infatti, accanto a quella impattiva, si potrebbe anche suggerire l'ipotesi endogena, non
così sicuramente si potrebbe fare per i corpi di dimensioni più modeste, assolutamente
inadeguati sia ad innescare che a mantenere attivo tale processo, a meno che non
intervengano pesanti fattori esterni (vedi quanto accade su Io, satellite di Giove,
caratterizzato da una parossistica attività vulcanica).
La presenza di crateri anche sui corpi minori, inoltre, è la chiara indicazione che il
meccanismo impattivo è di tipo gerarchico, perfettamente in linea, dunque con la visione
a gradini del processo evolutivo del Sistema Solare.
La stringente considerazione che la
craterizzazione fosse un fenomeno globale non poteva non comportare una riconsiderazione
della collocazione del nostro pianeta in questo tiro a segno cosmico: una vera e propria
rivoluzione culturale nella quale un posto preminente penso si debba riconoscere all'opera
di ricercatore di Eugene Shoemaker. A lui si deve lo studio approfondito (fu l'argomento
della sua tesi di laurea) del Meteor Crater in Arizona e la ricostruzione, ritenuta valida
tuttora, della dinamica dell'evento e della composizione del corpo impattante.
Un elemento molto importante presente nello studio del Cratere di Barringer effettuato dal
Dr. Shoemaker è l'identificazione della coesite (una forma di silicio
che si origina in presenza di elevate pressioni e temperature) quale prova
incontrovertibile dell'origine da impatto, un marchio che, unito a tutte le altre
manifestazioni di metamorfismo da shock, porterà, dalla fine degli anni '60 in poi, ad un
incredibile aumento del numero di identificazioni di crateri da impatto terrestri.
Poche righe fa ho usato il termine di rivoluzione culturale, e per qualcuno potrà suonare
eccessivo, ma io sono convinto che non venga sufficientemente sottolineato il grande
cambiamento di visione che comporta il riconoscere anche per la Terra il ruolo di
bersaglio cosmico.
L'immagine del nostro Pianeta quale luogo privilegiato del Sistema Solare ha subito un
ulteriore scossone, certamente non così micidiale come quello inflitto da Copernico (in
quel caso, addirittura, si proveniva da una visione caratterizzata da una posizione di
riguardo della Terra rispetto all'Universo intero
), ma comunque sufficiente a non
farci considerare più così sicuro il continuo viaggio intorno alla nostra stella e a
costringerci a chiederci se davvero è corretto ciò che riteniamo di conoscere del nostro
passato (la diatriba sulle estinzioni periodiche e sulle loro cause è ben lungi
dall'essere risolta, anzi si arricchisce continuamente di nuovi elementi).
Ma lasciamo in disparte l'analisi (solo apparentemente filosofica
) della nuova
immagine che la consapevolezza del ruolo fondamentale degli impatti ci può suggerire per
la Terra e rivolgiamoci, con il senno di poi, ad evidenziare quegli elementi che possono
suggerire la presenza attiva e fondamentale del meccanismo impattivo nel Sistema Solare.
Il primo elemento che si può mettere sul
tappeto è certamente l'obliquità dei pianeti, cioè l'angolo tra il
piano equatoriale e quello dell'eclittica (vedi tabella):
Pianeta |
Obliquità |
|
Pianeta |
Obliquità |
Mercurio |
0° |
|
Giove |
3° 1' |
Venere |
~ 177° |
|
Saturno |
26° 7' |
Terra |
24° 25' |
|
Urano |
97° |
Marte |
25° 2' |
|
Nettuno |
29° 8' |
Come si può notare dai dati riportati (nell'elenco manca Plutone
sia per la peculiarità della sua orbita e sia perché le recenti scoperte degli oggetti
trans-nettuniani potrebbero suggerire per esso una differente e più consona
classificazione), la condizione in cui si trovano tutti i pianeti è caratterizzata dal
fatto che l'equatore non è allineata con il piano orbitale, ma forma un angolo il cui
valore è, in alcuni casi, tutt'altro che trascurabile; una situazione che, ipotizzando un
accrescimento graduale da polveri, non si riuscirebbe a spiegare in modo credibile,
dovendo necessariamente ricorrere all'ipotesi di disomogeneità dinamiche locali, la cui
origine, però, sarebbe un vero mistero.
Come infatti motivare il manifestarsi dell'anomala situazione di Venere, il cui senso di
rotazione è opposto a quello che caratterizza ogni altro pianeta? Per quale ragione e
attraverso quale meccanismo fisico la porzione di nube primordiale collocata a quella
distanza dal Sole avrebbe potuto innescare un moto rotatorio in senso contrario?
Guardando la tabella si può notare che l'unico pianeta che fa eccezione a tale situazione
è Mercurio, ma le sue modeste dimensioni e soprattutto l'estrema vicinanza con il Sole
(solamente 0.38 U.A.) possono dinamicamente rendere ragione della sua situazione orbitale,
come dimostra anche il profondo legame risonante tra periodo orbitale e rotazionale
(stanno in un rapporto 3:2) e tra periodo rotazionale del Sole e analogo periodo di
Mercurio (il rapporto è 7:3).
Ed è proprio perché la sua danza cosmica è pesantemente condizionata dalla presenza
invadente del Sole che Mercurio deve essere considerato l'eccezione che conferma la
regola.
Una regola alla quale non sfuggono neppure i pianeti più massicci, come mostra la
situazione di Urano, letteralmente coricato sul suo piano orbitale.
Quale spiegazione avanzare, allora, per rendere ragione della
presenza di questa obliquità orbitale che caratterizza tutti i pianeti?
La spiegazione più semplice (perché tale appare con il senno di poi
) richiede
espressamente il verificarsi di colossali e violentissimi impatti, non limitati solamente
alla zona più interna (vale a dire ai cosiddetti pianeti terrestri), ma presenti in modo
ugualmente intenso in tutto il Sistema Solare non solo nei momenti della sua formazione,
ma anche nelle epoche successive.
Scontri inimmaginabili, in grado di intervenire pesantemente non solo sulla morfologia
superficiale, ma sulla stessa integrità fisica del bersaglio e sulle sue caratteristiche
dinamiche; il modello proposto nel 1989 da W. Benz e A.G.W. Cameron per giustificare la
situazione di Urano, ad esempio, ipotizza un impattore con dimensioni paragonabili a
quelle della Terra.
Un secondo elemento riconducibile all'azione
degli impatti è la strutturazione stessa del nostro pianeta (ma analogo discorso può
essere fatto per gli altri pianeti di tipo terrestre), nel quale si è verificata una
drastica differenziazione tra gli elementi più pesanti (fondamentalmente ferro e nickel)
e quelli meno pesanti (vari composti silicati quali olivina e pirosseni), differenziazione
avvenuta in seguito a ripetuti e globali fenomeni di fusione sfociati nella discesa verso
il centro del pianeta degli elementi più pesanti, con la conseguente separazione tra
nucleo e mantello.
Ma per giungere a ciò è richiesta una spaventosa quantità di energia, che comunque una
sorgente di tipo collisionale è certamente in grado di fornire, soprattutto se si
considera anche il tasso di impatti che avrebbe caratterizzato le fasi iniziali del
Sistema Solare.
Il quadro generalmente accettato per queste fasi iniziali (desunto in gran parte dallo
studio della craterizzazione lunare) prevede infatti la presenza di un catastrofico
bombardamento che ha coinvolto oggetti con dimensioni anche superiori ai 100 km e la cui
intensità è diminuita drasticamente circa 3850 milioni di anni fa.
Una testimonianza concreta della violenza degli impatti negli stadi iniziali della vita
del Sistema Solare ci proviene dallo studio delle superfici della Luna e di Mercurio.
|
Il grafico illustra la velocità di craterizzazione sulla Luna.
I dati si riferiscono al numero di crateri di varie regioni lunari la cui età è nota
grazie alle analisi dei campioni rocciosi del nostro satellite.
Si può notare il brusco calo del tasso di produzione dei crateri cui si accennava nel
testo.
Le cuspidi indicano che la diminuzione della craterizzazione è avvenuta passando anche
attraverso brevi aumenti dell'intensità del bombardamento
(tratto da: W.K. Hartmann, Le Scienze n. 105 - maggio 1977) |
Osservando le numerose immagini di questi due corpi a nostra
disposizione, non può non balzare subito all'occhio l'incredibile somiglianza delle due
superfici, ambedue caratterizzate dalla presenza di una fitta craterizzazione, che va
dalle piccole strutture ai grandi bacini di impatto.
Ambedue i corpi costituiscono la conferma di un intenso bombardamento che, perlomeno, ha
caratterizzato tutta la zona interna del Sistema Solare e che si è protratto nel tempo
non a ritmo costante ma con una graduale diminuzione sia delle dimensioni dei corpi
impattanti che del numero stesso degli impatti (questi dati si possono desumere
dall'osservazione delle dimensioni e della sovrapposizione dei vari crateri).
Ma una situazione ben più violenta ci viene
suggerita allorché spingiamo la nostra analisi un po' più in profondità, prendendo in
considerazione i valori delle densità di Mercurio e del nostro satellite.
Se consideriamo le densità dei pianeti a pressione zero, cioè ipotizzando per essi una
struttura sferica senza gli effetti della compressione, il valore risultante della
densità di Mercurio (5.3 g/cm3) è superiore a quello di tutti gli altri
pianeti di tipo terrestre e questo ci porta a ipotizzare una struttura formata da un
nucleo ferroso avvolto da una sottile crosta composta prevalentemente da silicati.
Mercurio, dunque, così simile alla Luna in superficie (anche come composizione chimica),
avrebbe un nucleo interno uguale a quello della Terra, verosimilmente proveniente, come è
avvenuto per il nostro pianeta, dal meccanismo della differenziazione nucleo-mantello.
La domanda cruciale, a questo punto, è la seguente: è sufficiente invocare la maggiore
temperatura causata dall'estrema vicinanza del Sole per spiegare la carenza di sostanze
più leggere (ipotesi dell'evaporazione del mantello) oppure è necessario ricorrere ad un
processo meccanico di asportazione dei materiali (ipotesi della rimozione collisionale)?
Ambedue le ipotesi possono reggere, ma, alla luce di quanto stiamo dicendo riguardo ai
primi stadi di formazione del Sistema Solare caratterizzati da planetesimali in moto
caotico destinati ad essere l'uno per l'altro o proiettile o bersaglio, l'ipotesi di un
gigantesco urto che ha privato Mercurio del suo mantello di silicati appare certamente
molto plausibile. Tale impatto, da collocare nei primi momenti del periodo di intenso
bombardamento, potrebbe inoltre rendere ragione dell'inclinazione dell'orbita rispetto
all'eclittica (7 gradi), maggiore di quella di tutti gli altri pianeti (escluso Plutone,
alla cui particolarità abbiamo già fatto un accenno).
Le correnti simulazioni per il fenomeno ipotizzano un proiettile dotato di massa di circa
un quinto di quella del pianeta ed una velocità di impatto di 20 km/sec.
|
Mercurio - Bacino Caloris.
Sono visibili nella parte sinistra dell'immagine gli anelli concentrici di questo
immenso bacino di impatto (cratere multiring).
Il diametro della struttura, ricavato valutando l'anello più elevato, è di
1.340 km; se però si considera l'anello più esterno il valore del diametro
(pur nella incertezza delle misurazioni dovuta alla sua discontinuità) raggiunge i 3.700
km. |
Se il problema per Mercurio era trovare una spiegazione alla sua elevata
densità, per la Luna siamo di fronte ad una situazione opposta. Dal momento che la sua
densità (valore medio 3.34 g/cm3) è molto prossima a quella del mantello
terrestre, è sempre stato considerato logico ipotizzare per il nostro satellite una
composizione di silicati e, necessariamente, la mancanza di quel nucleo pesante che può
essere considerato una caratteristica saliente dei corpi planetari posti in questa zona
del Sistema Solare. Una svolta fondamentale si è avuta allorché, grazie alla
possibilità di esaminare direttamente le rocce lunari riportate a Terra dalle missioni
Americane e Sovietiche, si è scoperto che la composizione chimica del mantello terrestre
era molto diversa da quella delle rocce lunari, che risultano completamente prive di acqua
e notevolmente arricchite di elementi refrattari.
Svanita in tal modo la possibilità di ipotizzare per il mantello terrestre e quello
lunare una medesima origine, si doveva abbandonare anche la teoria che proponeva per il
nostro satellite una formazione coeva alla Terra, come pianeta doppio. Poiché altre
ipotesi (quale ad esempio la cattura da un'orbita indipendente o quella della fissione
causata dalla rapida rotazione terrestre) dovevano essere abbandonate per difficoltà
dinamiche, era necessario trovare altri modelli che fossero in grado di risolvere sia il
problema dell'elevato contenuto di momento angolare del sistema Terra-Luna, per altro noto
da molto tempo, sia il problema chimico della strana composizione del nostro satellite.
Prende così corpo l'ipotesi di un catastrofico impatto della Terra con un planetesimale
(i modelli propongono per il proiettile dimensioni dell'ordine di quelle di Marte),
impatto che sicuramente potrebbe rendere ragione del momento angolare del sistema
Terra-Luna, non giustificabile ricorrendo solamente a casuali impatti di minori
dimensioni. Ma potrebbe anche spiegare le differenziazioni chimiche se, partendo dal
presupposto che il corpo destinato a colpire la Terra fosse già differenziato in nucleo e
mantello, si ipotizza che, in seguito all'urto, il suo nucleo avrebbe contribuito ad
incrementare quello terrestre, mentre il mantello, inizialmente disperso in un disco, si
sarebbe successivamente riaggregato per originare la Luna.
L'accrezione e la solidificazione della crosta lunare verrebbero collocate 4440 milioni di
anni fa, epoca nella quale iniziò, con una durata di circa 500 milioni di anni, il
periodo di intenso bombardamento responsabile della creazione di quegli smisurati bacini
d'impatto, in seguito colmati da colate basaltiche, che attualmente costituiscono i Mari
lunari.
Si può avere un'idea dei giganteschi impatti che hanno caratterizzato il nostro satellite
osservando la figura (adattata da: Wilhelms D.E., USGS Prof. Paper 1348, 1987): in
essa vengono schematizzate la posizione e le dimensioni approssimative dei maggiori bacini
d'impatto identificabili sulla faccia visibile della Luna (si notino le gigantesche
dimensioni dell'Oceanus Procellarum, con diametro apparente di 3200 km).
Bisogna precisare che, mentre per alcune delle strutture indicate nello schema l'origine
impattiva è generalmente accettata, per altre vi sono ancora alcune incertezze, che,
comunque, non scalfiscono assolutamente l'impressionante immagine di bersaglio cosmico che
il nostro satellite ci offre.
Nel grafico sono stati inoltre inseriti anche alcuni crateri di riferimento.
|
Legenda:
1.Procellarum
2. Imbrium
3. Serenitatis
4. Tranquillitatis
5. Nectaris
6. Fecunditatis
7. Nubium
8. Humorum
9. Grimaldi
10. Orientale
11. Mutus - Vlacq
12. Polo Sud - Aitken
13. Australe
14. Crisium
15. Marginis
16. Smythii
A. Aristarchus
B. Archimedes
C. Copernicus
D. Tycho |
Ma nel Sistema Solare non ci sono
solamente la Luna e Mercurio
Proseguiamo perciò il nostro cammino alla ricerca di testimonianze relative alla presenza
e al ruolo degli impatti, e lo facciamo cominciando dai pianeti a noi più vicini.
Venere, per molti aspetti considerato il pianeta gemello della Terra, ha nella
densa atmosfera la sua caratteristica saliente, caratteristica che ha sempre costituito
una barriera insuperabile per poter effettuare una anche minima analisi superficiale.
L'ostacolo è stato rimosso ricorrendo alle osservazioni radar, effettuate sia dai
radiotelescopi terrestri (soprattutto Arecibo in occasione delle congiunzioni Terra-Venere
verificatesi negli anni 1975 e 1977) sia dagli strumenti collocati sulle sonde (ricordiamo
per tutte le sovietiche Venera 15 e 16 lanciate nel giugno 1983); il merito della
dettagliata conoscenza attuale della morfologia superficiale del pianeta, però, è da
attribuire principalmente alla sonda Magellan (lanciata il 4 maggio 1989) che, a partire
dal 1990, ha fornito una mappa topografica dettagliata di oltre il 98% della superficie,
con risoluzione di 120 m nella zona equatoriale e 250 m ai poli.
E da tale mappa risulta evidente che anche sulla superficie di Venere è possibile
riconoscere i tipici crateri da impatto, con diametri compresi tra 3 e 280 km ed una
distribuzione abbastanza uniforme sull'intera superficie del pianeta. E' stato inoltre
possibile identificare bacini d'impatto di enormi proporzioni, quale ad esempio una
struttura circolare (di coordinate 35° Sud e 135° Est) di ben 1800 km di diametro. Le
strutture individuate non sembrano mostrare, in oltre il 60% dei casi, effetti di
modificazione imputabili a processi geologici o climatici ed in questo frangente Venere si
discosta molto da quanto avviene sulla Terra, sulla quale il meccanismo di cancellazione
delle strutture superficiali è decisamente più attivo.
Il fatto che non siano stati individuati crateri inferiori a 3 km è da imputare alla
potente azione di filtro giocata dalla densa atmosfera venusiana, in grado di distruggere
i meteoroidi al di sotto di una certa dimensione oppure di frenarne la caduta al punto da
non produrre cratere al momento dell'impatto con la superficie. In ogni caso si dovrebbe
manifestare al suolo l'azione dell'onda d'urto trasmessa dal meteoroide all'atmosfera e
tale potrebbe essere il meccanismo che ha originato alcune particolari strutture
superficiali.
Utilizzando il conteggio dei crateri quale strumento di datazione superficiale, si può
ipotizzare per l'attuale superficie di Venere una età di 500 milioni di anni e questo
implica che si sia verificato un catastrofico episodio di ringiovanimento associabile,
probabilmente, ad una intensa attività di tipo vulcanico che ha riversato sulla
superficie del pianeta uno strato di lava ed ha in tal modo cancellato ogni traccia di
precedenti impatti.
La testimonianza maggiore in merito al ruolo che gli impatti hanno giocato per Venere è,
però, il già accennato moto di rotazione retrogrado del pianeta, unico in tutto il
Sistema (eccettuando l'altro caso particolare costituito da Urano), riconducibile ad un
gigantesco urto avvenuto nei momenti iniziali della sua formazione, allorché le
dimensioni dei planetesimali che entravano in collisione erano decisamente superiori agli
impattori delle epoche successive, quando le orbite si erano ormai stabilizzate e le zone
più "a rischio" si erano quasi completamente svuotate.
Marte presenta una strana conformazione superficiale, accomunando due emisferi
(separati da un cerchio massimo inclinato di circa 35° rispetto all'equatore) con
caratteristiche completamente differenti, uno (quello meridionale) ricco di crateri,
canali e profonde depressioni la cui morfologia può richiamare gli altipiani lunari e
l'altro (quello settentrionale) caratterizzato da pochi crateri e dalla presenza di
numerose strutture vulcaniche estinte.
L'analisi delle strutture d'impatto ci permette alcune considerazioni sulla composizione
del suolo marziano suggerendo l'abbondante presenza di acqua sotto forma di permafrost:
gli ejecta dei crateri d'impatto, infatti, mostrano un contorno lobato (e non a raggiera
come gli ejecta dei crateri lunari) interpretabile come un avanzare di fango, formatosi
dallo scioglimento del terreno ghiacciato ad opera del calore generato dall'impatto e
successivamente congelato dopo aver ricoperto la zona circostante.
|
Cratere da impatto sulla superficie di Marte: si può notare il
caratteristico contorno lobato degli ejecta, indice della presenza di acqua. |
Molto dibattuto è il problema dell'acqua sulla superficie di Marte, la
cui presenza in epoche passate è testimoniata in modo ineccepibile da molteplici
strutture per le quali è ormai fuori discussione l'origine da fenomeni di natura erosiva.
Una possibile risposta al problema dell'origine di queste grandi quantità di acqua è
suggerita da Christopher F. Chyba ricorrendo all'intenso bombardamento ad opera di comete
ed asteroidi carbonacei nell'epoca iniziale della formazione del Sistema Solare, un
processo in grado di apportare sulla superficie del pianeta rosso uno strato uniformemente
distribuito di 10-100 metri d'acqua: ancora una volta, dunque, viene chiamato in causa il
meccanismo degli impatti.
Ormai siamo entrati nel cosiddetto Sistema
Solare esterno, ed anche qui le testimonianze in merito al ruolo giocato dagli impatti
proprio non mancano
La Fascia degli Asteroidi è stata da sempre considerata, nell'immaginario
collettivo, il luogo più indicato per il verificarsi di collisioni. Si è sempre
raffigurato tale zona, infatti, come fittamente popolata di corpi in moto caotico e dunque
destinati, inevitabilmente, a cozzare l'un contro l'altro. Ed in effetti l'idea delle
famiglie dinamiche di Hirayama si colloca alla perfezione in questo quadro, mostrando come
tali urti possano talvolta essere così violenti da distruggere completamente i corpi in
essi coinvolti. In forza di queste considerazioni, l'iconografia tradizionale degli
asteroidi li rappresentava come corpi irregolari, la cui morfologia superficiale non
doveva essere molto dissimile da quella rivelata dalle immagini dei due satelliti di Marte
Phobos e Deimos.
E proprio tale morfologia è stata puntualmente rivelata allorché la sonda Galileo ha
trasmesso a Terra le immagini di Gaspra e Ida e, successivamente, la NEAR quelle di
Mathilde e di Eros: anche su questi frammenti cosmici facevano mostra di sé i segni
lasciati dagli impatti, testimonianze silenziose di un passato veramente
movimentato.
Non solo crateri più o meno fitti e di svariate misure, ma anche vere e proprie voragini,
le cui impressionanti dimensioni lasciano talvolta perplessi sul fatto che il corpo non si
sia disintegrato: veramente incredibile quella di oltre 20 km presente su Mathilde, un
asteroide che ha un diametro di 52 km!!!.
|
Mathilde
si può vedere in primo piano il cratere di 20 km di diametro al quale si è
accennato poco sopra.
L'immagine è stata ripresa dalla sonda NEAR. |
Certo non possiamo aspettarci che
i giganti gassosi (Giove e Saturno) possano offrirci una superficie cosparsa
di crateri come quella dei pianeti terrestri, anche perché la "superficie" di
questi corpi costituiti soprattutto da gas è molto lontana dall'immagine tradizionalmente
associata a questo termine... In occasione dell'impatto con la cometa Shoemaker-Levy 9
(luglio 1994) si sono potuti notare gli impressionanti ed evidentissimi segni lasciati dai
frammenti sulla superficie di Giove, ma si è potuto notare anche che nel volgere di un
anno le tracce erano notevolmente diminuite in intensità, chiara indicazione della
potente azione dell'atmosfera gioviana, in grado di disperdere rapidamente le polveri ed i
gas originatisi nell'impatto e rimasti in sospensione.
|
Le macchie nere dell'immagine a sinistra sono le
cicatrici lasciate su Giove dagli impatti della cometa Shoemaker-Levy 9. |
Se Giove è avaro di informazioni circa il ruolo giocato dagli impatti,
non si può dire analoga cosa dei suoi satelliti.
La superficie di Ganimede racconta, pur nella notevole diversificazione che la
caratterizza, un passato di violenti impatti, e la diversità nella distribuzione dei
crateri può ragionevolmente essere interpretata come una conseguenza delle differenti
età dei terreni. Se interpretiamo le caratteristiche strutture superficiali come una
traccia di intensa e travagliata attività geologica, dobbiamo anche ipotizzare che tale
attività abbia inevitabilmente nascosto gli impatti più antichi e questo potrebbe
spiegare la presenza solo di strutture relativamente piccole e l'assenza dei giganteschi
bacini d'impatto rilevabili altrove. Questo, comunque, non impedisce anche a Ganimede di
fare sfoggio di una struttura di 550 km (il bacino Gilgamesh).
Callisto è per dimensioni uguale a Mercurio e, proprio come Mercurio, presenta una
superficie con una fitta craterizzazione, con la presenza di larghi bacini d'impatto (i
due maggiori sono Valhalla con diametro di 4000 km e Asgard di oltre 1600 km), segnale
che, a differenza di quanto è avvenuto per Ganimede, la sua superficie non è stata
ringiovanita e rimodellata dalla attività geologica.
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Superficie di Ganimede
La struttura raffigurata è una catena di crateri riconducibile ad un corpo disintegratosi
in frammenti prima di colpire la superficie, proprio come è accaduto alla Shoemaker-Levy
9. |
Possiamo aspettarci poco dall'analisi della superficie di Io in
merito all'evidenza ed al ruolo giocato dagli impatti: l'intenso riscaldamento interno
indotto dall'azione di marea generata dalla vicinanza di Giove ha nei fenomeni vulcanici
il suo tipico e naturale epilogo e questo processo influenza pesantemente la morfologia
superficie del satellite. La superficie di Io, infatti, è ricoperta da una coltre
composta dal materiale eruttato continuamente dai vulcani e si calcola che, al tasso di
produzione attuale, nel corso di un milione di anni tale materiale possa raggiungere il
ragguardevole spessore di 10 metri.
Anche da Europa ci provengono scarse informazioni sul tasso di impatti che ha
caratterizzato il sistema satellitare di Giove, ma per ben altri motivi. La superficie del
secondo satellite galileiano, come d'altra parte è logico aspettarsi in questa zona così
lontana dal Sole, è completamente ricoperta da uno spesso strato di ghiaccio e pertanto,
in caso di impatto, non sussistono le premesse ambientali perché una struttura craterica
si possa conservare per lunghi periodi. L'analisi delle immagini inviate dalle sonde
(soprattutto quelle scattate dalla Galileo nel corso del flyby effettuato il 6 novembre
1997) ci permette comunque di rilevare, sparsi tra le caratteristiche striature della
superficie di Europa, numerosi crateri piccoli e grandi: si può senza difficoltà
identificare l'evidente struttura a raggiera di Pwyll (un cratere recente con diametro di
26 km) e, con altrettanta facilità si può notare, in una immagine del 4 aprile 1997, una
struttura craterica multi ring di 140 km di diametro.
Una situazione tormentata imputabile per alcuni
aspetti al meccanismo degli impatti ci viene offerta anche dal sistema di Saturno.
Tralasciamo il discorso relativo agli anelli (tra l'altro non più esclusiva
caratteristica di questo pianeta, dopo le scoperte di analoghe strutture per Giove, Urano
e Nettuno) la cui formazione può essere spiegata non solo ricorrendo ad un impatto in
grado di sbriciolare un satellite, ma anche chiamando in causa le intense forze mareali
del pianeta o meccanismi accretivi partendo da un disco originario intorno al pianeta.
L'esempio che intendo evidenziare è offerto dal satellite Mimas, un oggetto di
circa 390 km di diametro, sulla cui superficie spicca il gigantesco cratere Herschel. Le
dimensioni di questa struttura (ben 130 km di diametro) ci inducono a ritenere che
l'impatto che l'ha generato sia stato ad un passo dal causare danni strutturali ben più
disastrosi, e la stessa inclinazione orbitale di Mimas (circa 1,5°) non è escluso che si
possa ragionevolmente attribuire proprio a tale evento.
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Mimas ed il gigantesco cratere Herschel. |
Mimas, analogamente a Rhea e Giapeto, mostra inoltre una
saturazione di piccoli crateri ed una carenza di quelli maggiori di 30 km, indizio che
l'epoca della sua formazione è recente, collocabile cioè in un periodo in cui gli
impattori erano ormai diventati più piccoli e quelli di maggiori dimensioni costituivano
solamente dei casi isolati. Ne consegue che si può ipotizzare per tali satelliti un
meccanismo di creazione-distruzione che si può essere attivato più volte nel corso della
loro storia.
Per quanto riguarda Urano si è già accennato in
precedenza al suo asse di rotazione praticamente adagiato sull'orbita, indicazione chiara
che si sono verificati violenti episodi collisionali che hanno profondamente influenzato
la sua formazione. Le indicazioni provenienti dal suo sistema satellitare non ci
consentono di trarre molte conclusioni, anche perché le superfici dei satelliti mostrano
talvolta morfologie quasi opposte. Mentre Ariel e Titania, infatti, con le
loro superfici abbastanza giovani rivelano di essere stati dei corpi geologicamente attivi
e Umbriel, che richiama molto la morfologia di Callisto, esibisce una superficie
praticamente immutata dal termine del periodo di intenso bombardamento iniziale, Miranda
mostra sia terreni molto antichi e fitti di crateri sia terreni che risultano molto più
recenti, forse i più giovani tra quelli riscontrabili nel sistema satellitare di Urano.
Quest'ultimo satellite, inoltre, mostra una inclinazione orbitale di oltre 4 gradi,
evidente indizio di un passato piuttosto burrascoso. E perché dunque non collegare ad un
unico evento impattivo sia questa anomala inclinazione dell'orbita, maggiore di quella
degli altri satelliti di Urano, sia il ringiovanimento di una parte della superficie,
meccanismo molto efficiente nel caso di superfici costituite quasi esclusivamente da
ghiacci come sono quelle dei corpi collocati in questi angoli remoti del Sistema Solare?
E siamo giunti al secondo gigante di ghiaccio, Nettuno. Anche in questo caso le
indicazioni dirette per un approfondimento del tema degli impatti sono piuttosto scarse;
le immagini più recenti del pianeta (inviate dal Voyager 2 nell'agosto 1989) mostrano una
enigmatica superficie verde-azzurro con evidenti segni di complessi moti atmosferici, ma
nulla ci è dato di conoscere della superficie sottostante.
Certamente più utili per i nostri fini le immagini relative alla superficie di Tritone,
che mostrano la presenza sia di complesse strutture di difficile interpretazione sia
quella più familiare dei bacini di impatto, quasi cancellati dal materiale effusivo che
ha colmato la cavità iniziale (proprio in tale fenomeno e nella sua collocazione in
un'epoca recente si potrebbe ricercare la spiegazione dell'assenza di altri crateri).
Ma Tritone, indirettamente, ci può dare una indicazione molto più importante.
Il sistema satellitare di Nettuno (troppo anomalo per essere quello originario) ha da
sempre spronato i planetologi ad identificare le cause della sua stranezza, ma non sempre
le teorie proposte erano in grado di rispondere a tutti gli interrogativi. L'idea
attualmente accettata è quella proposta da P. Farinella e collaboratori nel 1980, che
identifica nella cattura di Tritone lo sconvolgimento del primitivo sistema satellitare di
Nettuno. Con tale ipotesi si può spiegare non solo il moto retrogrado del satellite, ma
anche l'esistenza delle complesse strutture superficiali attribuibili alle forti
sollecitazioni gravitazionali che ne avrebbero riscaldato l'interno.
Dopo la scoperta degli oggetti trans-nettuniani si è fatta strada l'idea che Tritone e
molti altri corpi celesti (Plutone con il suo satellite Caronte, il satellite di Saturno
Phoebe, Chirone ed il gruppo dei Centauri) appartengano proprio a questa tipologia di
oggetti e dunque provengano dalla cosiddetta Fascia di Kuiper-Edgeworth.
Mentre Tritone è stato direttamente catturato da Nettuno e altri oggetti sono stati
bloccati in un'orbita stabile (Plutone, ad esempio, e un gran numero di Kuiper Belt
Objects sono in risonanza orbitale con Nettuno), appare molto ragionevole l'ipotesi che
altri "Tritoni" possano essere entrati nella zona planetaria del Sistema Solare,
terminando bruscamente la loro lunga corsa sulla superficie di un pianeta con evidenti
drammatiche conseguenze (basti pensare che Tritone ha un diametro di 2705 km
).
Questa "ragionevole ipotesi", inoltre, renderebbe possibile il verificarsi di
impatti di dimensioni gigantesche anche in epoche successive al bombardamento iniziale che
ha caratterizzato l'evoluzione del Sistema ed al quale, fino ad ora, abbiamo fatto
riferimento quale periodo contrassegnato dagli impatti più energetici.
Siamo così giunti al termine di questo rapido
viaggio tra i corpi del Sistema Solare alla ricerca di testimonianze sul ruolo degli
impatti. Ritengo che molti degli argomenti presentati meriterebbero una trattazione ben
più approfondita dei miei sommari e scarni "appunti di viaggio", ma devo
rinunciare a farlo perché questo mi porterebbe troppo lontano dalle finalità che mi sono
prefissato.
Resta solo il tempo di trarre qualche conclusione; dal quadro proposto emergono infatti
alcune idee che ritengo di poter così sintetizzare:
1. Il fenomeno degli impatti ha interessato e
interessa tutti i corpi del Sistema Solare.
I flussi di craterizzazione mostrano situazioni non sempre omogenee tra le varie zone del
Sistema, tuttavia il loro studio, che ha nel conteggio dei crateri il dato
principale, costituisce un ottimo criterio per valutare le epoche di formazione delle
varie superfici.
Anche se, chiaramente, è molto arduo (e talvolta impossibile) riuscire a correlare, sulla
base solamente di questi dati, le fasi geologiche dei vari corpi (sarebbe infatti
necessario disporre della datazione isotopica dei materiali), emerge ugualmente, quale
dato generale, il passaggio da una situazione di intensa craterizzazione iniziale ad una
fase meno violenta.
2. Gli episodi impattivi non hanno avuto
solamente uno sbocco nella modificazione della morfologia superficiale di
tutti i corpi, ma hanno contribuito anche a cambiare la stessa strutturazione
interna (differenziazione nucleo/mantello) in quelli sufficientemente grandi.
3. Talvolta i fenomeni di impatto hanno comportato pesanti
modificazioni di carattere dinamico, testimoniate dalla peculiarità di
alcune orbite.
4. Per i pianeti di tipo terrestre bisogna sottolineare il
ruolo degli impatti nel meccanismo di rimozione/creazione delle atmosfere
planetarie.
Le atmosfere attualmente presenti non possono certamente essere quelle originarie, dato
che la formazione dei pianeti interni si colloca quando ormai il vento stellare aveva
abbondantemente svuotato di gas il Sistema ancora in formazione.
Siamo ancora lontani, però, dal poter affermare se le nuove atmosfere siano un fenomeno
diretto della volatilizzazione degli elementi componenti la superficie planetaria
innescata dal calore riconducibile agli impatti e/o ad altri fenomeni di tipo endogeno
oppure vi sia stato un apporto diretto di tali elementi proprio da parte dei proiettili
cosmici.
5. Un altro elemento fondamentale da inglobare in ogni
discorso sugli impatti riguarda la presenza attuale di acqua sul nostro
pianeta e nel passato del pianeta Marte, come dimostra in modo eloquente la sua morfologia
superficiale.
Dal momento che questa acqua quasi certamente non potrebbe provenire dai planetesimali che
si stavano aggregando (la temperatura in questa zona del Sistema Solare era troppo
elevata), si deve ricercarne l'origine in una sorgente esterna.
6. Certamente non trascurabile, infine, seppure in una visione
antropica dei fenomeni che stiamo considerando, è il ruolo giocato dagli impatti
nel "preparare il terreno" alla comparsa dell'uomo, intervenendo in modo attivo
nelle fasi evolutive della biosfera terrestre, e faccio esplicito riferimento alle grandi
estinzioni periodiche, che hanno nell'evento K/T, nella scomparsa dei grandi dinosauri e
nell'ascesa dei mammiferi l'esempio più conosciuto.
Per tali eventi, ormai, comincia ad essere accettata - superando le perplessità degli
anni '80 - la presenza di una componente esterna che, sovrapponendosi alle dinamiche
evolutive fisiologiche delle specie, ha talvolta imposto drammatici e repentini
cambiamenti.
L'immagine proposta, dunque, è quella di un
Sistema Solare in cui il meccanismo degli impatti è stato molto più di un semplice
effetto secondario imputabile al grande affollamento di oggetti collocati in orbite che si
incrociavano pericolosamente.
L'idea che mi sono sforzato di mettere in evidenza, spero con sufficiente apporto di
prove, è che il meccanismo degli impatti è stato ed è tuttora un fondamentale processo
evolutivo, non solo come momento distruttivo, ma anche come indispensabile e basilare
elemento costruttivo nella edificazione e nella strutturazione definitiva (o quasi
)
di tutti i corpi del Sistema Solare.
Come anche il lettore più distratto avrà certamente notato, non ho parlato delle
strutture da impatto individuabili sulla superficie della nostra Terra (solo un fugace
accenno iniziale al Meteor Crater e, al termine, all'evento K/T): è perciò doveroso da
parte mia - e prima che mi venga chiesto - motivare la mia scelta.
Al di là di una motivazione scherzosa che potrei addurre (appellandomi alla necessità di
non superare il limite di sopportazione del lettore
), sono convinto che l'argomento
del ruolo degli impatti con la Terra necessiti di una trattazione a se stante, non
solamente perché la Terra è il nostro Pianeta, ma soprattutto per le inevitabili
problematiche correlate (l'analisi del complesso fenomeno meteoritico, la situazione
attuale e le prospettive future della ricerca dei NEO, i criteri di l'individuazione delle
strutture terrestri da impatto e le difficoltà presenti in tale ricerca, le reali difese
contro possibili impatti futuri, la valutazione di oscuri eventi del passato che
potrebbero aver influenzato le stesse vicende storiche, ecc
): problematiche la cui
analisi richiederebbe molte e molte altre pagine (alcune delle quali sto gradualmente
aggiungendo al mio sito web
), e voci certamente più autorevoli della mia (e anche
per queste... mi sto organizzando). |