Nomi e numeri del calendario

di Gianfranco Benegiamo

Articolo pubblicato sulla rivista Nuovo Orione (gennaio 2001)

Il nome dei mesi e le modalità con cui è ripartito il calendario hanno una storia millenaria che ripercorre quella della nostra penisola.

L'arte di misurare il tempo

L'arte di misurare ha permesso all'uomo di soddisfare, sublimandolo, quel desiderio di assoggettare il mondo che la natura gli ha sempre negato, ma proprio da questa ha ricavato gli elementi di base e d'impulso per una visione matematica dell'universo e della vita.
La stessa forma delle mani racchiude in sé il più elementare concetto di insieme, costituito di parti uguali, che è stato la premessa dell'attuale sistema di numerazione.

I simboli I, V e X, usati comunemente da Romani, Sabelli ed Etruschi, per indicare le tre cifre più ricorrenti, sono la rappresentazione grafica di un solo dito, della mano aperta e di entrambe le mani.
Nelle antiche popolazioni italiche si rinvengono numerosi esempi di suddivisione decimale, tra i quali basterà ricordare: la decima dei magistrati, il pareggiamento legale di un bue a dieci pecore e la divisione del distretto in dieci curie.
Accanto a questo criterio di ripartizione se ne affiancò un altro, di origine assai più complessa, derivato dall'antichissima arte di misurare il trascorrere del tempo.

La regolarità con cui i fenomeni astronomici si ripetono ha fornito le principali modalità per suddividere quella dimensione, che separa la "distanza" tra due eventi, chiamata tempo.
Il giorno, scandito dall'alternarsi di luce a tenebre, è stata la prima più evidente unità di misura che ha consentito poi di riconoscere la periodicità con cui si alternano le fasi della Luna e la posizione occupata dal Sole tra le stelle fisse.
Il fatto che l'anno solare abbia una durata pari a circa dodici lunazioni impresse, al fianco del primo, anche il concetto di ripartizione dell'intero (as) in dodici unità (unciae).

Secondo il numero dodici si ordinarono i sodalizi sacerdotali latini e la lega delle città etrusche; inoltre, nel sistema romano dei pesi, la libbra era costituita da dodici once e in quello delle lunghezze, analogamente a quanto è ancora oggi in uso nei paesi anglosassoni, il piede era diviso in dodici parti uguali.
La ripartizione duodecimale sembra dunque derivare dal numero di pleniluni che occorrono al Sole per eseguire un giro completo tra le stelle dello zodiaco, come se avesse percorso un anello nel cielo, e da ciò il nome di annus.
I termini menes, mes e me, nelle più remote lingue del ceppo indoeuropeo, venivano utilizzati per indicare mese, Luna e misura: da cui il legame, anche etimologico, tra la parola mese e il concetto di durata della lunazione.
La suddivisione di quest'ultima in quattro parti, delimitate dagli aspetti più caratteristici del satellite, ha individuato nella settimana l'unità di tempo intermedia tra giorno e mese che forma un ciclo a sé, comune già nel passato a molte differenti civiltà.

La durata di quella che oggi chiamiamo settimana subì, dagli albori sino al declino della civiltà romana, profonde modificazioni: presso alcune popolazioni italiche, come Sabelli ed Etruschi, era scandita dalla successione dei principali aspetti della Luna e per tale motivo aveva una durata disuguale, con l'alternarsi di periodi formati da sette e otto giorni.
Una testimonianza di questo sistema sopravvive nel calendario romano, sia pure in una forma sempre più distorta dall'esigenza di conciliare la durata del mese lunare con quella dell'anno solare, nei periodi individuati da Calende, None e Idi.

I giorni di mercato, dedicati allo scambio dei prodotti agricoli e artigianali, si ripetevano secondo un ciclo costante di otto giorni che, per l'usanza di includere nel conteggio anche quello di partenza, venivano detti Nundinae. La successione di lettere, comprese tra A e H, riportate dagli antichi calendari romani, segnava il tempo delle vicende quotidiane senza alcun legame con gli aspetti reali della Luna; questo ciclo si interrompeva al termine dell'anno per ricominciare, all'inizio del successivo, nuovamente dalla lettera A.
Gli intervalli delimitati da Calende, None e Idi non avevano alcun rapporto con quelli costanti individuati da questa sequenza di lettere.

Lo stazionamento dei soldati romani in Egitto contribuì poi alla diffusione della suddivisione in periodi formati da sette giorni, com'era in uso presso quelle popolazioni, e tale sistema iniziò progressivamente a rimpiazzare, anche a Roma, il ciclo di otto giorni.
Ottaviano e i suoi successori non ostacolarono l'affermarsi di tale abitudine che venne però ufficializzata, dall'imperatore Costantino I, solo intorno all'inizio del IV secolo d.C.

I nomi del calendario

Le lingue attualmente più diffuse in Occidente indicano i mesi con termini assai simili tra loro a testimonianza della comune origine, la cui storia è antica almeno quanto quella delle civiltà sviluppatesi nella nostra penisola ed alle quali si possono fare risalire i principali nomi del calendario, nella forma in cui ancora oggi li conosciamo.
Si ha ragione di ritenere che in principio l'anno dei Latini fosse ripartito in dieci mesi lunari chiamati con il numero che li contraddistingueva nella sequenza. Secondo la tradizione, scomparso Romolo, Sabini e Romani vennero a contesa per la scelta del successore e dopo quasi un anno fu eletto il nuovo sovrano nella persona di un sabino, Numa Pompilio, di Cure.

Il nuovo re si propose di incivilire i sudditi influendo sui loro costumi col timore degli dei: costruì un tempio a Giano, aperto soltanto in tempo di guerra, istituì riti e fondò ordini sacerdotali per l'amministrazione del culto, riformò il calendario aggiungendo i mesi di gennaio e febbraio.

L'anno romano iniziava con la primavera ed il suo primo mese, Martius, traeva il nome da Marte, una delle divinità prevalenti come si può ricavare dall'elenco delle festività (feriae publicae); a Marte era dedicato il capodanno e in generale la grande festa guerriera che esordiva con le corse equestri (Equirria) e culminava poi con la fucinatura dello scudo (Mamuralia).
Il centro del culto era, secondo ogni indizio, Maurs o Mars: divinità italica considerata in origine protettrice della natura e del suo risorgere primaverile, diventata poi il guerriero che brandisce la lancia e difende il gregge, in ultimo identificata con il greco Ares.

La tradizione più antica si ricollega a Marte ed il lupo, animale a lui sacro, era il simbolo della cittadinanza romana; tutto ciò che di più onorifico la fantasia di questa civiltà ha creato in fatto di leggende ataviche si riferisce a Marte e al suo duplicato Quirino.
I mesi successivi, da aprile a giugno, trassero i loro nomi dagli aspetti caratteristici della natura nei corrispondenti periodi: dal latino aperire, cioè il dischiudersi della vita in primavera e il germinare delle semenze, deriva Aprilis. In relazione al crescere della vegetazione e alla dea Maia, detta anche Maiesta, venerata dai Romani che più tardi la assimilarono alla figura mitologica figlia di Atlante e Pleione, la maggiore e la più bella delle Pleiadi, trae origine il nome del mese Maius.

Il prosperare della natura e la dea Giunone (Juno), antica divinità onorata da Etruschi (Uni), Sabini e Umbri, hanno dato a questo periodo dell'anno il nome di Junius; numerosi erano gli appellativi di Giunone e come Juno Covella o Kalendaris era la dea del calendario, alla quale venivano dedicati i giorni delle calende.
I mesi dal quinto al decimo presero invece il loro nome, come probabilmente originariamente accadeva anche per quelli che li precedevano, dall'ordine numerico occupato nella successione annuale: Quinctilis, Sextilis, September, October, November e December.

Le conoscenze pervenuteci a proposito dell'antico calendario romano si devono principalmente a Publio Ovidio Nasone, poeta latino nato a Sulmona nel 43 a.C., e a Plutarco di Cheronea (46-128 d.C.), biografo greco che ebbe incarichi ufficiali e riconoscimenti in Roma, ma già nelle loro testimonianze si trovano interpretazioni discordanti su alcuni argomenti e tra questi l'origine da attribuire al nome dei mesi.

Aprilis secondo Ovidio deriverebbe da Aphrodite, la dea greca della bellezza, e a sostegno di tale ipotesi si può anche aggiungere che il primo giorno di aprile era dedicato a Venere con la Festum Veneris.
Plutarco, pur rammentando lo stesso legame, attribuisce ad aprile la derivazione da aperire: alcuni preferiscono questa tesi alla precedente anche per il fatto che il nome del mese era Aprilis anziché Aphrilis.
Lo storico Jakob Grimm ritiene invece che il nome sia legato a quello di un'ipotetica divinità italica chiamata Aper o Aprus.

Secondo Ovidio i nomi di maggio e giugno non provengono da divinità, ma dalle vecchie (Maiores) e nuove (Juvenes) generazioni; Plutarco individua invece la loro radice in Maia, dea celebrata nello stesso mese, e Giunone.

L'undicesimo mese, introdotto solo più tardi dalla riforma di Numa Pompilio, aveva nome Januarius e il suo significato allude al principio, alla ripresa dei lavori campestri dopo il riposo generale ed il solstizio d'inverno, nonché a Giano, la figura espressiva più sacra ai Romani.
Janus, dio della porta (janua), protettore della inviolabilità del domicilio, i cui attributi sono il bastone e la chiave, è una divinità caratteristica della religiosità romana che per intraprendere una qualsiasi azione doveva, prima di ogni altro, invocare lo spirito dell'apertura. Quando gennaio diventò il primo mese del calendario, e quindi la porta dell'anno che iniziava, si disse anche che il bifronte Giano guardava al vecchio e al nuovo anno.

Il dodicesimo mese, Februarius, prese il nome da Februo dio dei morti, divinità sotterranea di probabile origine etrusca, oppure dalle feste di purificazione dette Februalia e in effetti questo mese, allora come oggi, è destinato a sanare periodicamente le anomalie del calendario.

La suddivisione del tempo in settimane, unità di misura derivata dall'intervallo che approssimativamente separa gli aspetti più caratteristici delle fasi lunari, ha origini antichissime. Gli attuali nomi che compongono la sequenza settimanale sono: di derivazione pagana, quelli dedicati a figure mitologiche, e religiosa, sabato e domenica.

Il termine lunedì deriva da lunae dies che significa giorno della Luna ed anche gli equivalenti inglesi (Monday) e tedesco (Montag) hanno la medesima origine.
Martis dies era consacrato a Marte, mentre l'equivalente inglese (Tuesday) deriva dal nome del dio germanico della guerra Tiu figlio di Odino; Mercurio, Giove e Venere sono le divinità a cui si legano i nomi dei tre giorni successivi.
Il termine sabato deriva da shabbat, giorno consacrato dalla religione ebraica al culto divino, e infine la domenica proviene dal latino giorno del Signore; gli equivalenti in inglese, Saturday e Sunday, conservano traccia dell'antica denominazione di saturni dies e solis dies.

L'inizio della settimana, argomento su cui si trovano notizie piuttosto discordanti, sembra variare tra le diverse civiltà: presso alcune popolazioni il giorno successivo a quello dedicato a Saturno veniva considerato il primo della serie, mentre per altre era il settimo. Quest'ultimo caso potrebbe spiegare l'abitudine, giunta sino a nostri giorni e adottata dall'Organizzazione internazionale preposta alla standardizzazione con la normativa ISO-8601, di far partire la settimana dal lunedì.

Secondo gli Egizi ogni ora, delle 24 che formano il giorno, era governata dai sette astri principali del cielo, in una successione stabilita dalla loro distanza presa in ordine decrescente.
Le ore, dalla prima alla settima, venivano dedicate a Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio e Luna; quelle comprese tra l'ottava e la quattordicesima seguivano ancora lo stesso ciclo, così come tutte le rimanenti.
Il pianeta della prima ora governava, oltre l'ottava, quindicesima e ventiduesima, anche l'intero giorno. Ponendo sotto gli auspici di Saturno la prima ora del sabato, ne segue che la venticinquesima, ovvero la prima del giorno seguente, appartiene al Sole e ripetendo ancora il ciclo si ottiene la successione: Luna, Marte, Mercurio, Giove, Venere tornando nuovamente a Saturno e Sole. Un'altra spiegazione al riguardo, richiamata qui solo a titolo di curiosità, si basa su una semplice costruzione geometrica: elencando gli astri in base alla distanza, stabilita dal periodo di rivoluzione apparente attorno alla Terra, e assegnando poi i loro nomi, presi nello stesso ordine, ai vertici di una stella a sette punte, disegnata congiungendo ogni estremità con quella non ancora "toccata" sul lato opposto, si ottiene la ben nota successione.

L'epoca in cui il culto dei pianeti portò a sette i giorni della settimana non è conosciuta con certezza, ma già intorno al V secolo a.C. lo storico greco Erodoto di Alicarnasso riferiva dell'uso egiziano di dedicare i giorni a divinità identificate con i sette principali corpi celesti.
I nomi di questi astri venivano usati, nel medesimo ordine, anche nell'antica India e in Tibet per designare i giorni della settimana; qualcosa di simile si è verificato, sia pure con origini che è stato possibile datare per epoche assai meno remote (intorno all'anno 1000), in Giappone e Corea.
Il termine tedesco Mittwoch, usato per designare il giorno dedicato a Mercurio, è stato invece introdotto solo intorno al 1020 d.C. dal monaco tedesco Notker e deriverebbe da mittauuechun, ovvero "nel mezzo della settimana", ma ciò risulta troppo recente per dare adeguatamente conto di quale fosse in origine il vero inizio della settimana.

Il calendario della Roma antica

I Romani non si sono mai particolarmente distinti nelle scienze astronomiche e ciò ha avuto ripercussioni anche sulle modalità da loro adottate per la ripartizione del tempo, a lungo basata sulla imprecisa trieteride che prevedeva ogni due anni, per completare il ciclo solare, l'inserimento di un tredicesimo mese, Mercedonius, dedicato ai lavoratori.
I decemviri tentarono di sostituire questo sistema con quello della octaeride, allora in uso nell'Attica, calcolato nella seconda metà del VI Secolo a.C. da Cleostrato di Tenedo. L'astronomo greco, per recuperare la differenza di 11 giorni e 1/4, tra anno lunare e solare, aveva previsto di intercalare 90 giorni ogni otto anni con l'aggiunta di un mese supplementare al 3°, 5° e 8° anno di ogni ciclo, ottenendo così una lunghezza media di 365,25 giorni.

I riformatori romani, sia per imprevidenza che per scrupoli religiosi, non vollero comunque accorciare a sufficienza il mese di febbraio: avendo un particolare riguardo alla festa del dio Termine, celebrata appunto nel periodo che si sarebbe dovuto periodicamente sopprimere, e ciò produsse un rilevante scostamento, tra stagioni e calendario, a cui pose rimedio la riforma giuliana.

Nel Lazio, come tra i Sabelli e gli Etruschi, il mese era suddiviso in settimane lunari che, vista la loro durata media di 7 giorni e 3/8, si alternavano tra cicli di 7 e di 8 giorni. Soltanto le ultime tre settimane dei mesi romani avevano una lunghezza costante e quindi, per dare a ciascuna di esse il numero di giorni richiesto, occorreva dichiarare, di volta in volta, la durata della prima: da tale proclamazione l'inizio del mese ebbe il nome di giorno delle grida, Kalendae, da cui deriva il termine usato per indicare la ripartizione civile dell'anno.
Il primo giorno, degli otto che formavano la seconda settimana di ogni mese, era chiamato nones. Il primo dei sette giorni che costituivano le terze settimane conservava il vecchio nome di idus ed era il 15° a marzo, maggio, luglio e ottobre, il 13° negli altri mesi: questa ricorrenza, inizialmente coincidente con il plenilunio, era celebrata dal flamen Dialis sacrificando una pecora bianca (ovis idulis) a Giove, dio del cielo e della luce.

Il termine idi può derivare da dies (giorno) oppure dall'etrusco iduare, corrispondente al latino dividere, o ancora dal dio Fidius, indigitazione di Giove, protettore della parola data; i giorni che intercorrevano dalle idi alle calende successive si indicavano con la formula ante diem, seguita dal numero ottenuto computando il giorno di partenza e quello di arrivo.

L'esigenza di far coincidere il plenilunio con le Idi, distanti sempre otto giorni dalle None, è la ragione per cui queste ultime non avevano delle date fisse; solo l'introduzione di mesi con una lunghezza costante portò alla loro disposizione in date prestabilite.

Originariamente i mesi romani avevano una lunghezza correlata al ciclo lunare e all'inizio di ogni mese veniva stabilito il numero di giorni che mancavano al Primo Quarto e dunque la posizione delle None: il sistema permetteva, attraverso continui aggiustamenti, di far coincidere le Idi con i pleniluni.
La durata dei mesi romani venne fissata intorno al V secolo a.C. e da allora questi "incontri" diventarono solo occasionali.

Nell'antica Roma esistevano consorzi, depositari delle arti e delle scienze, ai quali era affidata la conservazione delle formalità del culto, di estrema importanza per la vita politica della città; tra i più importanti c'erano quello degli Auguri, preposti ad interpretare il significato del volo degli uccelli, e quello dei Pontefici, addetti a dirigere la costruzione e la rottura del ponte sul Tevere.
Questi ultimi erano gli ingegneri che possedevano il segreto delle misure e delle cifre, per cui fu loro affidato il compito di gestire il calendario, di annunciare al popolo le fasi della Luna e i giorni festivi, di curare che ogni atto religioso avesse luogo nel momento dovuto.
I giorni in cui era consentito trattare gli affari pubblici venivano detti fasti, mentre quelli in cui era lecito radunare comizi prendevano il nome di comitales; nei giorni nefasti, invece, era impedito l'inizio di nuove imprese e l'esecuzione di sacrifici.

I giorni nefasti, dedicati ai riti funerari e alle purificazioni, comprendevano tra gli altri quelli successivi a calende, none, idi e anniversari di gravi calamità pubbliche. Il calendario del periodo repubblicano, risalente ancora a quello dei decemviri, per la sua imprecisione raggiunse uno sfasamento di quasi tre mesi rispetto alle stagioni reali e ciò portò a celebrare, per esempio, la festa della fioritura l'11 luglio invece che il 28 aprile.

La riforma giuliana

Nel 46 a.C. Giulio Cesare introdusse, su progetto del matematico greco Sosigene, l'anno rustico italico ordinato sul calendario egizio eudossiano, sostituendo l'antico capodanno con il primo gennaio, data già da tempo in uso per il cambio d'ufficio dei magistrati supremi.
Il primo anno del periodo giuliano, per rimediare all'errore accumulato, fu di circa 15 mesi e perciò detto anno della confusione. La riforma stabilì che gli anni comuni fossero di 365 giorni e quelli multipli di quattro ne avessero uno in più; la lunghezza dei mesi venne posta alternativamente pari a 31 e 30 giorni, eccetto febbraio che ne aveva 29 negli anni ordinari e 30 in quelli bisestili. Il giorno supplementare era intercalato subito prima del 25 febbraio, corrispondente all'ante diem sexto Kalendas Martias, dove prima si aggiungeva il mese Mercedonio: poiché si conteggiava due volte il sesto giorno prima delle calende di marzo, detto bis sexto, deriva l'odierna denominazione di bisestile all'anno in cui tale giorno ricade.

Cesare, nello stesso periodo in cui veniva realizzata la riforma, vedendo che i suoi luogotenenti non riuscivano a domare la rivolta organizzata dai figli di Pompeo, Gneo e Sesto, si recò in Spagna e riuscì a vincere gli avversari a Munda, presso Malaga, in una battaglia disperata. Assicurata così la sottomissione di tutto il paese fece ritorno a Roma, dove lo aspettavano onoranze quasi divine: la veste trionfale, i calzari rossi, il titolo di imperator ereditario e una regale dimora sul Palatino.

Il Senato lo dichiarò padre della patria, decretò festivo il giorno della nascita e, su proposta di Antonio, dal 44 a.C. chiamò il mese in cui tale ricorrenza cadeva (Quinctilis) con il suo nome: Julius.

La riforma giuliana non fu applicata scrupolosamente, soprattutto nella successione degli anni bisestili, accumulando in 36 anni l'anticipo di tre giorni e per questo l'imperatore Ottaviano proibì per dieci anni l'inserimento del giorno intercalare.
Il Senato romano insignì lo stesso Ottaviano del titolo di Augusto, riconoscendolo così degno di venerazione, e con riferimento a questo suo titolo gli dedicò il mese Sextilis che dall'anno 8 d.C. prese il nome di Augustus.
Non volendo però essere in nulla inferiore a Cesare, al quale era dedicato un mese di 31 giorni mentre il suo ne conteneva solo 30, l'imperatore aumentò di un giorno la durata di agosto, sottraendolo a febbraio. Così, per evitare una sequenza di tre mesi "lunghi", settembre perse un giorno a vantaggio di ottobre e la stessa sorte capitò a novembre che trasferì uno dei suoi giorni a dicembre.

Numerosi, ma anche infruttuosi, furono i tentativi successivi di Tiberio, Claudio, Nerone e Domiziano per lasciare un segno della loro grandezza in questo calendario, diffuso sulla vastissima area d'influenza dell'antica Roma e rimasto immutato sino al XVI Secolo.

La riforma gregoriana

La difficoltà di adeguare il calendario lunare ebraico a quello giuliano fu causa di una lunga polemica sulla data della Pasqua alla quale pose termine il primo Concilio ecumenico, svoltosi a Nicea nel 325 d.C., che stabilì le modalità per determinare la data di questa festività mobile: da allora celebrata la prima domenica successiva al plenilunio di primavera.

La maggiore lunghezza dell'anno giuliano, rispetto a quello tropico, pur essendo assai modesta divenne sufficiente, dopo quasi 13 secoli, a far retrocedere di circa 10 giorni l'equinozio che ai tempi del concilio di Nicea cadeva il 21 marzo.
Questa differenza indusse Ugo Buoncompagni, salito al soglio pontificio con il nome di Gregorio XIII, a nominare una commissione di matematici ed ecclesiastici, per studiare la revisione del calendario.

Il progetto base della riforma fu opera di Luigi Giglio, professore di medicina all'Università di Perugia, che l'astronomo tedesco Cristoforo Clavio, della Compagnia di Gesù, definì il primus auctor del nuovo calendario.
Giglio propose di intercalare 97 giorni anziché 100 ogni 4 secoli e di abolire, in un'unica soluzione oppure in un intervallo di 40 anni, la differenza sino ad allora accumulata.

Tra queste alternative sembra che sia stato lo stesso Clavio a decidere per la prima, individuando in ottobre il periodo più adatto perché quello con il minor numero di feste religiose e l'omissione di una decade in questo mese avrebbe comportato minori disagi.

Gregorio XIII, per riportare l'inizio della primavera alla data conciliare, con la bolla papale Inter gravissima decretò che nel 1582 al giovedì 4 seguisse il venerdì 15 ottobre e, per evitare il ripetersi dell'inconveniente originato dalla ripartizione giuliana, stabilì che degli anni secolari fossero bisestili solo quelli perfettamente divisibili per 400; questa è la ragione per cui non fu bisestile il 1900, mentre lo è stato l'anno 2000.

Venne inoltre sancito che il giorno supplementare fosse il ventinovesimo del mese di febbraio e non più quello successivo al romano ante diem sexto Kalendas Martias.
La lunghezza media dell'anno civile è stata così fissata in 365,2425 giorni: valore che, pur non essendo ancora esattamente uguale a quello dell'anno tropico, richiederà comunque alcuni millenni prima di accumulare lo scostamento di un giorno.

La riforma gregoriana entrò immediatamente in vigore nei paesi cattolici, mentre solo più tardi vi aderirono Germania, Danimarca e Norvegia (1700), Gran Bretagna (1752), Giappone (1873), Cina (1911), Romania (1919), Grecia (1923) e Turchia (1926).

Le riforme mancate: dal calendario rivoluzionario francese a quello universale

Circa due secoli addietro si realizzò in Francia una così radicale riforma sociale che non risparmiò nemmeno il nome dei mesi. Il calendario rivoluzionario, studiato da un apposito Comitato d'istruzione formato da scienziati, artisti e uomini di lettere, fu instaurato con decreto della Convenzione che stabilì quale inizio della nuova era il 22 settembre 1792: data di fondazione della Repubblica.

L'anno iniziava con l'equinozio d'autunno ed era diviso in 12 mesi di 30 giorni, più altri 5 detti dapprima sanculottides e poi, dal 1795, complementari; a questi si aggiungeva, ogni 4 anni, il Giorno della Rivoluzione.

I mesi, ai quali venne dato un nuovo nome, erano nell'ordine: vendemmiaio, brumaio e frimaio per l'autunno; nevoso, piovoso e ventoso per l'inverno; germinale, floreale e pratile per la primavera; messidoro, termidoro e fruttidoro per l'estate.
Ogni mese era suddiviso in tre periodi di 10 giorni che prendevano il nome di primodì, duodì, tridì e così via sino a decade: quest'ultimo era il giorno del riposo precedentemente occupato dalla domenica.

A completare l'anno si aggiungevano i giorni consacrati al Genio, al Lavoro, all'Azione, alla Ricompensa e all'Opinione. Il calendario elaborato tra gli altri da David, Romme, Monge, Chénier e Fabre d'Eglantine fu abolito da Napoleone Bonaparte che dal primo gennaio 1806 ripristinò quello gregoriano.

I principali difetti addebitati all'attuale calendario derivano dal fatto che i mesi non hanno la stessa durata, il numero di giorni compresi nei trimestri o nei due semestri è diverso; inoltre, nel corso degli anni, alla stessa data corrispondono uno dopo l'altro tutti i giorni della settimana.

Una delle proposte di riforma più note è stata quella denominata calendario universale, esaminata nel 1954 dall'Organizzazione delle Nazioni Unite che però non l'ha mai adottata; in essa si prevedono anni di 364 giorni, ripartiti in 52 settimane, e mesi di 30 giorni ad esclusione del primo di ogni trimestre che ne ha 31.
I giorni della settimana mantengono la medesima sequenza con il capodanno sempre coincidente con la domenica e il 365° giorno, detto di fine anno, aggiunto senza data e senza nome; negli anni bisestili si introduce un giorno supplementare, anch'esso privo sia di data che di nome, tra l'ultimo giorno di giugno e il primo di luglio.

I tentativi di riforma periodicamente avanzati non sono però riusciti a rimettere in discussione le scelte adottate oltre quattro secoli addietro.

Come s'è visto, sia pure brevemente e non senza omissioni, le principali modalità di suddivisione dell'anno e il nome dei mesi, così come ancora oggi sono indicati dai calendari di una vasta parte del mondo, racchiudono una storia millenaria che a tratti ripercorre quella della nostra penisola.

Gianfranco Benegiamo
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Si ringraziano l'autore e l'editore per la gentile concessione


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