di Stefania Maurizi
Pubblicata in "Tuttoscienze" de "La Stampa", 17 settembre 2003, pagina 1
"Prima ammazzeremo tutti i sovversivi, i fiancheggiatori, e i simpatizzanti. Poi ammazzeremo gli indifferenti e infine gli indecisi", dichiarò uno dei generali della giunta militare che s'impadronì dell'Argentina.
Era il 1976: dopo 7 anni di regime, circa 20.000 persone erano scomparse nel nulla. Fu proprio la tragedia dei desaparecidos argentini ad aprire la strada alle moderne indagini internazionali forensi, condotte da team di scienziati che passano la vita a investigare la morte.
Uno dei gruppi forensi più importanti del mondo è quello messo in piedi dall'organizzazione non governativa Physicians for Human Rights (PHR), con sede a Boston (USA) e che nel 1997, insieme ad altre organizzazioni non governative, è stata insignita del Nobel per la Pace per la sua lotta contro le mine antiuomo.
William Haglund, che dirige il Programma Internazionale Forense di PHR, è uno dei soli 24 antropologi forensi eminenti che ci sono nel mondo: ha organizzato e diretto ricognizioni e indagini forensi in Afganistan, Guatemala, Honduras, Rwanda, ex-Yugoslavia, Somalia, Georgia, Cipro, Sri Lanka e Indonesia. Lo abbiamo intervistato appena di ritorno da una missione in Iraq.
Dottor Haglund, voi investigate esclusivamente violazioni dei diritti
umani come genocidi, di crimini di guerra o contro l'umanità. Come funziona il vostro lavoro?
Innanzitutto riceviamo un invito, perché non abbiamo l'autorità per
andare a scavare di iniziativa nostra in un altro stato. A volte, l'invito può venire dal governo
stesso di un paese, perché un regime è stato rovesciato ed il nuovo governo vuole investigare
sui suoi crimini, come nel caso dell'Argentina. Altre volte, invece, è l'ONU che
richiede il nostro expertise, come quando abbiamo lavorato per i Tribunali Internazionali per
i crimini nella ex-Yugoslavia e in Rwanda.
E il problema dell'invito è estremamente significativo, perché dove c'è la volontà di investigare,
da parte della comunità internazionale o di quella locale, ci possiamo lavorare, dove questa
volontà non c'è, possiamo fare pressioni e campagne, ma non possiamo riesumare le fosse. Quando
lavoriamo su grandi progetti, dei nostri team fanno normalmente parte archeologi e antropologi
forensi, patologi, che possano risalire alle cause della morte delle vittime, fotografi e tutti
i tecnici che raccolgono le prove sulla "scena del crimine".
Poi utilizziamo anche altri tipi di competenze, come quelle dei genetisti, dei biologi molecolari,
o di specialisti come i tossicologi, se sospettiamo attacchi chimici, ma non li utilizziamo
"sul campo". Lavoriamo in condizioni molto dure, decisamente diverse da quelle che si hanno in
laboratori che hanno perfino le porte, ed è vero che gli scienziati forensi lavorano di norma a
contatto con la morte violenta, ma investigare l'atrocità su larga scala, in comunità scioccate
e devastate, è traumatizzante. E poi ci sono le mine, i checkpoint inquietanti, le armi e le
bande militari o paramilitari onnipresenti.
Quanto sono pericolose le indagini?
Dipende dai paesi. Nella ex-Yugoslavia, quando facevamo le
riesumazioni, eravamo sempre scortati dai militari della forza internazionale. Non lavoriamo in
zone molto pericolose se non siamo protetti, infatti, in Afghanistan per ora non ci
lavoriamo. Sarebbe assurdo mettere a rischio la vita dei lavoratori per riesumare le fosse.
Ci sono donne nei vostri gruppi?
Normalmente i gruppi sono formati circa al 50% da donne! Personalmente,
voglio esseri umani.
Come individuate le fosse comuni?
Spesso grazie ai testimoni, come nel caso della fossa di Ovcara
in Croazia, vicino a Vukovar, in cui nel 1991 furono uccisi la maggior parte dei pazienti
di un ospedale. Le forze serbe avevano garantito che quei pazienti sarebbero stati affidati alla
Croce Rossa e invece li deportarono con dei camion in un villaggio non lontano, li massacrarono
e li seppellirono di nascosto. Solo un uomo scampò alla carneficina saltando dal camion e, quando
fummo chiamati in Yugoslavia, ci guidò ad una fossa con circa 200 cadaveri. Ma quando i
testimoni non sanno o non ricordano dove si trovano le fosse, perché le indagini vengono fatte
a distanza di anni, usiamo tecniche geofisiche per rilevare i disturbi del sottosuolo, oppure
immagini satellitari. Per la Bosnia, l'intelligence americana aveva addirittura delle
immagini di alcuni Serbi che scavavano le fosse, non fu semplice ottenerle, ma ci furono
utilissime. Infine, se riusciamo a localizzare l'area geografica in un cui la fossa può trovarsi,
per risalire alla sua posizione esatta, osserviamo attentamente il terreno e cerchiamo indizi
di uno scavo che l'occhio di un archeologo riesce a cogliere.
Cosa fanno esattamente gli archeologi e gli antropologi forensi?
Gli archeologi si occupano di tutte le operazioni di scavo, che vanno
condotte con metodo scientifico, perché altrimenti si mescola tutto e si perdono informazioni
cruciali. Per identificare le vittime e le cause della loro morte, infatti, può essere tutto
molto importante: oggetti personali, ma anche piante e insetti che si trovano nella fossa,
perché possono permettere di stabilire l'ora del decesso. Gli antropologi forensi, invece,
conoscono molto bene le ossa e le regole legali che disciplinano la raccolta delle prove.
Le fosse sono soggette a tanti fattori esterni: intemperie, animali che scavano, mescolano i
resti e li disperdono. A volte, ci sono anche ossa animali nelle fosse. Gli antropologi separano
le ossa umane dalle altre, cercano di capire esattamente cosa c'è nella fossa e come mai manca
qualcosa che invece dovrebbe starci. Questo lavoro è fondamentale per capire cosa è successo.
E per raccogliere prove delle stragi che possano reggere in tribunale, occorre una documentazione
scientifica del massacro. Esistono protocolli di indagine e, come tutta la ricerca scientifica,
anche il nostro lavoro per il Tribunale Internazionale per la ex-Yugoslavia è stato
sottoposto a "peer review", cioè a valutazione da parte di esperti indipendenti.
Come identificate le vittime?
E' un grosso problema. Nel caso di Vukovar, avevamo una lista di
360 persone scomparse che potevano trovarsi lì e ci fu molto utile. Ma spesso non abbiamo
elementi. Per esempio a Srebreniza, in Bosnia, erano scomparsi 7.000 ragazzi e
uomini: i resti che trovavamo nelle varie fosse potevano essere di chiunque di loro. In questi
casi, bisogna costruire un database, rintracciando tutte le famiglie delle persone scomparse e
chiedendo loro di fornire tutte le informazioni che hanno dei loro cari: che età avevano, che
vestiti indossavano l'ultima volta che li hanno visti, se avevano delle fratture, ecc..,
chiediamo radiografie dei denti e documenti sanitari, ma spesso abbiamo a che fare con persone
che hanno visto un dottore ben poche volte nella loro vita. Costruito il database, confrontiamo
i suoi dati con quelli che ricaviamo dall'esame dei resti, che ci permette di capire l'età
approssimativa della vittima, l'altezza, se aveva fratture, ecc...
Ma per identificare in modo certo i corpi, preleviamo un campione di sangue dai familiari e
confrontiamo il loro DNA con quello ricavato dalle ossa o dai denti delle vittime. Purtroppo,
però, il test del DNA è tanto costoso. In Bosnia, solo per citare un esempio, il progetto
di identificazione delle vittime, che opera ormai da 3 anni, costa 6 milioni di dollari
all'anno, a questi vanno aggiunti i 40 milioni di dollari necessari per creare il
laboratorio: il tutto porterà ad identificare 15.000-20.000 persone. In Rwanda, avevamo
a che fare con 800.000 vittime e non sapevamo neppure a chi chiedere il DNA per fare i confronti,
perché erano state sterminate intere famiglie. Ora pare che anche in Iraq il numero delle
vittime sia molto grande: probabilmente, durante il regime di Saddam sono scomparse più di
300.000 persone nel corso degli ultimi 2 decenni.
Lei è appena tornato dall'Iraq.
Ci siamo già stati nel 1991 su invito dei curdi, per riesumare i curdi
uccisi da Saddam Hussein negli attacchi con i gas. Adesso siamo ritornati d'iniziativa
nostra, ma per ora abbiamo fatto solo una ricognizione. La situazione è estremamente complessa:
nei 25 anni del regime ci sono state 3 guerre, molte purghe e uccisioni sommarie.
Dopo 25 anni, le mogli non sanno ancora dove sono finiti i mariti e prima della caduta del
regime non erano stati fatti tentativi per cercarli, soprattutto perché non si poteva parlare
di queste cose, in quanto c'era una dittatura. Appena il regime è crollato, la gente ha iniziato
a scavare in cerca dei resti dei cari. E questo purtroppo a portato ad una situazione per cui
si ammucchiano ossa alla rinfusa: è un vero disastro.
Lei accennava al problema dei costi, alcuni ritengono che, poiché
queste missioni interessano paesi devastati da guerre e massacri, le esigenze dei vivi devono
essere prioritarie rispetto a quelle dei morti, per cui un governo o un'istituzione internazionale
prima di spendere tanti soldi per i morti dovrebbe garantire i bisogni immediati come il cibo,
le cure sanitarie o la protezione dei sopravvissuti. Che ne pensa?
E' una questione delicata, perché è vero che i morti sono morti, ma per
chi sopravvive e, dopo vent'anni non sa ancora dov'è finita una persona che amava, questo tipo
di indagini sono importanti. E'un diritto umano "avere una chiusura": conoscere la sorte di una
persona cara e assicurarle una sepoltura secondo certe convenzioni culturali o religiose.
E oltre che per i singoli individui, noi di PHR riteniamo che questo lavoro sia importante
anche per la collettività. Se non si ricostruisce la storia delle persone scomparse, non si
individuano le responsabilità e non si raccolgono le prove dei massacri, se la gente può morire
senza che nessuno si preoccupi, allora altra gente potrà morire senza che nessuno si preoccupi e
questo da una misura di ciò che è permesso in una società. Molti hanno paura di istituzioni come
il Tribunale Internazionale per la ex-Yugoslavia, ritengono che i processi lacerino le
comunità ed hanno l'urgenza di "normalizzare" la vita di una comunità, dimenticando le stragi.
Ma chi ha perso una persona amata, o l'intera famiglia, non può tornare alla normalità
semplicemente dimenticando. Ed anzi pretendere che le persone tornino a convivere, come se
niente fosse, con chi ha massacrato i loro cari, ostacola la ricostruzione delle collettività.
"Archeologi dell'orrore"
Interview with William Haglund
by Stefania Maurizi
Originally published in "Tuttoscienze" of "La Stampa", 17 September 2003, pg.1
"First, we will kill all the subversives, then we will kill their collaborators, then their sympathizers, then those who remain indifferent, and finally, we will kill the timid", declared one of the generals of the military junta which seized Argentina.
That was 1976: after 7 years of that regime, roughly 20,000 people had disappeared into thin air. It was the Argentinian desaparecidos' tragedy which paved the way to the modern international forensic investigations led by scientists who spend their lives investigating death.
One of the most important forensic groups in the world is the one created by the nongovernmental organization Physicians for Human Rights (PHR), which is based in Boston (USA) and which in 1997 together with other nongovernmental organizations was awarded the Nobel Prize for Peace for its struggle against landmines.
William Haglund, who directs the PHR's International Forensic Programme, is one of the only 24 pre-eminent forensic anthropologists in the world: he has organized and directed forensic assessments and investigations in Afghanistan, Guatemala, Honduras, Rwanda, former Yugoslavia, Somalia, Georgia, Cyprus, Sri Lanka, Indonesia, East Timor. We interviewed him right after his return from Iraq.
Doctor Haglund, your team investigates human rights violations exclusively,
such as genocides, war crimes and crimes against humanity. How does your team work?
First of all, we receive an invitation, because we do not have the
authority to go excavate in another country on our own initiative. And the invitation, as in the
case of Argentina, can come from the government itself of a certain country, because a
regime was overthrown and the new government wants to investigate its crimes. Other times, the
United Nations asks for our expertise, such as in the case of the International
Criminal Tribunals for the former Yugoslavia and Rwanda. And the invitation problem is a very
significant one because where there is the will of the international or the national community
to investigate, we can work, but where there is not that will, we can pressure and campaign,
but we cannot exhume mass graves. Normally, when we work on large projects, in our teams there
are forensic archeologists, anthropologists, pathologists who investigate causes of death,
photographers, crime scene technicians may be included.
Other types of expertise that may be utilized, thought not in the field, geneticists and
molecular biologists or specialists in particular cases, for example if we suspect chemical
attacks. We work in very tough conditions, definitely different from those in which you have a
normal lab which even has doors. And although forensic scientists normally work in close contact
with violent death, it is traumatizing to investigate large-scale atrocity, among shocked and
devastated communities. In addition, we must be conscious of mines, sinister checkpoints, and
the ever-present weaponry and military and paramilitary bands.
How dangerous are your investigations?
It depends on the country. In the former Yugoslavia we were always
under the military escort of the international protection force when doing exhumations. We do
not work in very dangerous zones if we are not protected. In fact, at the moment, we do not work
in Afghanistan. It would be nonsense to put workers' lives at risk to exhume graves.
Are there women in your teams?
Normally approximately 50% of our teams are women! Personally, I want
human beings.
How do you individuate mass graves?
Often thanks to witnesses graves are discovered, like in the Ovcara
grave in Croatia, near Vukovar, in which in 1991 mostly hospital patients were killed.
The Serbian forces had agreed to take those patients to the Red Cross, instead they deported
them with trucks, slaughtered and secretely buried them. Only one man escaped the massacre by
jumping out of the truck and when we were asked to come to Yugoslavia, he led us to a
mass grave in which there were roughly 200 cadavers. But when the witnesses do not know or do
not remember where the graves are, because the investigations are done after many years, we use
geophysical techniques to find disturbances beneath the ground, or we use satellite images.
In Bosnia, the American intelligence even had images of Serbs digging the graves, it was
not simple to obtain those images, but they were very useful for us. Finally, if you are able
to locate the area in which the grave could be, in order to find its precise position, we
carefully observe the ground looking for signs of a dig and normally an archeologist can catch
those signs.
What do the forensic archeologists and anthropologists do exactly?
Archeologists conduct all the excavation process, which has to be
conducted according to a scientific method, otherwise you can mix up everything loosing very
important information. To identify victims and their causes of death, anything can be very
important: personal effects and the plants and insects you find in the graves, because they may
permit you to establish the time of death. As far as forensic anthropologists are concerned,
they know bones very well and are aware of legal requirements in collecting evidence. Mass
graves are exposed to many external factors: bad weather, animals which dig, mix up the remains
and disperse them. Sometimes you can also find animal bones in the graves. Anthropologists
separate human bones from the others, they try to understand what is in the grave and why
something that should be there is missing. This kind of work is fundamental in understanding
what happened. And in order to collect evidence of massacres which can stand up in a tribunal,
you need to document them scientifically. There are protocols for investigations and, like all
scientific research, our work for the International Criminal Tribunal for the former
Yugoslavia was subject to peer review, that is to the evaluation of independent experts.
How do you identify victims?
It is a big problem. In the Vukovar case, we had a list of 360
disappeared who could have been there and that list was very helpful. But oftentimes we do not
have clues. For example, in Srebrenica, in Bosnia, 7,000 men and boys had disappeared
and the remains we found in various graves could have been those of any of them. In these cases,
you have to make a database, getting in touch with all the families of those who have persons
missing from Srebrenica, interview them to give you all they know about their loved ones: dental
X-rays and medical records, but often we have to deal with people who saw doctors very few
times in their lives. We had to know what clothes the victims were wearing the last time they
were seen, how old they were, if they had broken bones, etc.
Once the database is completed, we have to match its data with those we obtain from the
examination of remains which permits us to deduce the victim's age range, height, and if he had
broken bones.
However, in order to identify victims with scientific certainty, we take a blood sample from
their family members and we match their DNA with that taken from the victims' bones or teeth.
But DNA testing is very expensive. In Bosnia, the project to identify the victims, which
has been running for 3 years, costs 6 million dollars per year, but we had to add 40
million dollars, the costs to set up the lab and it can lead to identifying 15,000-20,000
people. In Rwanda, we had 800,000 victims and we did not know who to ask for DNA samples
to match with as entire families had been slaughtered. And now, in Iraq as well it seems
that the number of victims is very high: probably, during Saddam's regime more than 300,000
people disappeared over the past two decades.
You have just come back from Iraq
We had already gone in '91 under the invitation of the Kurds, to
exhume those Kurds killed by Saddam Hussein's poison gas attacks. And now we have gone
back, but just to do a general assessment. The situation is very complicated: during the 25
years of the regime, there were 3 wars, many purges and summary killings. After 25 years wives
still do not know where their husbands are. There were not attempts to find them prior to the
fall of the regime, mainly because people could not speak about this because there was a
dictatorship. And as soon as the regime was overthrown, people began to excavate searching for
their loved ones'remains. This has unfortunately resulted in piling up bones without any
rationale: it is a real disaster.
You mentioned the problem of costs. Some people believe that, since
these missions regard countries devastated by wars and massacres, the needs of the living must
have higher priority than those of the dead. Thus a national government or an international
institution before spending so much money for the dead has to guarantee basic needs like food,
medical care and protection of the survivors. What do you think about this?
It is a very delicate question because it is true that the dead are dead,
but for the survivors who after twenty years still do not know where a loved one is, these kinds
of investigations are important. It is a human right to "have a closure"; to know the fate of a
loved one and to assure his or her burial according to certain cultural or religious customs.
And we at PHR believe that this kind of work is not only important for the individuals,
but also for the community. If we do not reconstruct the story of the person who disappeared,
if we do not hold those responsible accountable, and if we do not collect the evidence of the
massacres, if people can die and nobody cares, other people can die and nobody will care, and
this can determine what can be allowed to happen in a society. Many people fear institutions
like the International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, they think that
trials lacerate communities and they feel an urgent need to normalise the life of a community
by forgetting the massacres. But people who lost a loved one or their entire family cannot get
back to normal simply by forgetting. On the contrary, expecting people to go back to living
together with those who slaughtered their loved ones, as if nothing had happened, is an obstacle
to the reconstruction of a community.
Si ringraziano l'autrice del testo e l'editore per la concessione dell'articolo.