Alla soglia del terzo millennio il nostro secolo sarà probabilmente
ricordato come il primo dell'Età del Silicio.
Questo, elemento il più abbondante sulla Terra, è alla base della tecnologia dei semiconduttori,
del "microchip" che ormai domina dappertutto, segnando gli aspetti della nostra vita di tutti i
giorni. Il silicio è un materiale semiconduttore, vale a dire un elemento che gode parzialmente
di proprietà di un buon conduttore elettrico come il rame e di un isolante elettrico come il
vetro.
La sua struttura può essere controllata in vari modi, ad esempio tramite l'iniezione di atomi
di elementi di natura diversa nella struttura cristallina, permettendo così la costruzione di
componenti e circuiti elettronici.
In poco più di trent'anni la tecnologia dei semiconduttori è stata alla base di una rivoluzione
senza precedenti. Circuiti integrati e microprocessori di elevata complessità e potenza hanno
reso possibile la costruzione di sistemi in grado di effettuare calcoli di estrema complessità.
Tutto ciò con un grande impatto sull'Astronomia. Gli apparati
fotoelettrici, convertono l'energia radiante in segnali elettrici che possono essere
digitalizzati, ossia convertiti in forma numerica, e quindi elaborati da un computer.
Oggi questi strumenti, spesso automatizzati e controllati a distanza, hanno un'elettronica molto
avanzata e dialogano con computer dotati di banche dati e software molto potenti.
Tra questi, parleremo dei sistemi elettronici CCD, ossia delle camere CCD ormai diffuse anche
tra gli astronomi dilettanti. Il motivo è semplice.
Gli strumenti utilizzati dagli astronomi dilettanti operano generalmente nella banda della luce
visibile dall'occhio umano o al più nella banda spettrale tra il vicino ultravioletto e il
vicino infrarosso, cioè in un campo di lunghezza d'onda tra i 300 e 1000 nm, in cui il CCD è
in generale molto sensibile.
Il CCD (Charge-coupled device, ossia dispositivo ad accoppiamento di
carica) è nato presso i laboratori Bell di Murray Hill, New Jersey, già luogo di nascita
del transistor. Verso la fine del 1969, Bill Boyle e George Smith, ricercatori
impegnati nella ricerca di nuovi metodi di acquisizione delle immagini tramite cristalli di
silicio, nello sforzo di sviluppare il PicturePhone, trovarono quasi per caso il CCD.
Vale la pena raccontarvi brevemente come andarono le cose.
Verso la fine di quell'anno, quando nei laboratori Bell di Murray Hill la ricerca sulle memorie
a bolle magnetiche era al massimo del suo sviluppo, Bill Boyle, direttore esecutivo della
Divisione Semiconduttori, e il suo amico George Smith, capo del dipartimento responsabile
dello sviluppo di un nuovo dispositivo (una matrice di diodi di silicio) per il Picturephone,
s'incontrarono di pomeriggio per discutere di tecnologie basate sul silicio.
All'improvviso ecco la domanda chiave posta da Bill al suo amico: "What
about an electric bubble?" L'analogia tra il passaggio di bolle magnetiche e il passaggio
di cariche elettriche da un dominio ad un altro fu ciò che spinse entrambi ad approfondire la
discussione.
Noto era il modo di memorizzare le cariche tramite un sottile strato metallico depositato sulla
superficie di un cristallo di silicio, ma nuova fu l'idea, mutuata per analogia dalla tecnologia
delle memorie a bolle magnetiche, di raggruppare i domini di accumulo delle cariche e di usare
opportune differenze di potenziale elettrico per trasportare le cariche da un dominio all'altro.
I concetti basilari furono chiari in meno di due ore. Poche settimane
dopo il primo CCD a 6 elementi (pixel) era pronto per i primi test. Sul Bell System
Technical Journal, Vol. 49, n.4, Aprile 1970, apparve una relazione tecnica dal seguente
titolo: A new semiconductor device concept has been deviced which shows promise of having
wide application.
Fu una profezia destinata a rivoluzionare il mercato, con un impatto straordinario nell'universo
dell'astronomia. Il CCD è un dispositivo caratterizzato da una matrice di microscopiche
regioni di forma quadra o rettangolare, disposte a scacchiera sulla superficie di un cristallo
di silicio, opportunamente trattato e integrato in un dispositivo (oggi abbastanza complesso)
comunemente denominato microchip.
Tali regioni, molto sensibili alla luce, denominate pixel (picture elements), sono
ricavate direttamente nel silicio, disposte come mattonelle di un pavimento, troppo piccole per
essere osservabili ad occhio nudo. Tecnologia e modo di funzionare di un moderno CCD sono
argomenti che meriterebbero di essere trattati con un sufficiente grado di completezza.
In questa sede ci limiteremo ad illustrarne le caratteristiche e le proprietà salienti al solo
scopo di aiutare gli astronomi dilettanti ad un uso appropriato e corretto delle speciali
macchine fotografiche elettroniche, altresì chiamate camere CCD, dotate di questi
straordinari dispositivi.
In una macchina fotografica tradizionale, la superficie del film esposta
alla luce giace su un piano posto di fronte all'otturatore. Se sostituiamo il film con un
sensore CCD e, con un tocco di bacchetta magica, equipaggiamo la nostra macchina con
un'elettronica ed un software capaci di registrare e riprodurre immagini digitali, abbiamo
ottenuto una camera CCD.
La superficie del sensore è paragonabile a quella di un'emulsione fotografica:
alla matrice dei pixel corrisponde la grana dell'emulsione. La differenza più macroscopica
è la dimensione del sensore generalmente utilizzato nelle camere CCD non professionali: pochi
millimetri quadrati (da un minimo di 4 a un massimo di 100) rispetto agli 864 mm2
del campo di una 24 x 36.
Sembra un incolmabile vantaggio a favore del film fotografico, ma non è così, come vedremo più
avanti, anche se, indubbiamente, è preferibile da un punto di vista pratico utilizzare un
sensore di dimensioni ragionevoli e generalmente non inferiori a 18-20 mm2.
Vista attraverso un microscopio, la superficie di un'emulsione
fotografica è composta di grani le cui dimensioni sono generalmente più grandi di quelle del
pixel di un CCD. Osservando più attentamente la grana del film, ci si accorge che questa
presenta elementi di dimensioni variabili, distribuiti in modo irregolare e non uniforme.
Al confronto, i pixel del CCD sono tutti identici e sono disposti con assoluta regolarità
lungo le colonne e le righe di una matrice quadrata o rettangolare. E' un punto a favore del
CCD.
Con la nostra camera CCD munita di obiettivo tradizionale o collegata ad un telescopio, proviamo
a riprendere un'immagine di un oggetto astronomico. I fotoni, cioè i quanta di energia
radiante provenienti dall'oggetto inquadrato inizieranno a cadere sulla superficie del sensore.
Ciascun pixel ne raccoglierà una quantità proporzionale alla durata dell'esposizione e
all'intensità del flusso luminoso incidente. Il CCD trasformerà parte dell'energia E
associata ai quanta (E=hc/l, dove h è la costante di Planck, c la velocità
della luce e l è la lunghezza d'onda della luce) in elettroni, ossia in cariche
elettriche, che saranno immediatamente integrate nel substrato adiacente alla matrice dei pixel.
Durante esposizione (processo di integrazione delle cariche) una precisa
mappa elettronica dell'immagine dell'oggetto astronomico andrà formandosi sulla superficie del
sensore. Il processo di integrazione è generalmente lineare ed esente dal cosiddetto difetto di reciprocità presente nelle emulsioni fotografiche.
Di più, una percentuale ben più alta di fotoni (dal 20% al 60% rispetto al 2-3% dell'emulsione
fotografica) sarà catturata e trasformata in elettroni. Tutto ciò significa maggior sensibilità
(efficienza quantica) del CCD rispetto all'emulsione fotografica. Al termine
dell'esposizione l'immagine astronomica "impressa" nel substrato del sensore sarà trasmessa
sotto forma di segnale elettrico ad un circuito integrato che ne effettuerà il campionamento,
ovvero la digitalizzazione, un processo che trasformerà il segnale d'immagine in una
ordinata sequenza numerica di bit.
L'immagine così ottenuta "light frame" sarà quindi trasferita in
un computer e visualizzata sul monitor. Successive elaborazioni manuali o automatiche
trasformeranno l'immagine originale, generando una quantità ed una qualità di informazioni
decisamente superiori a quelle ottenibili con la fotografia tradizionale.
Abbiamo dato una descrizione sommaria della camera CCD e abbiamo appreso che il sensore ne è
il cuore. Vediamo come è fatto.
3. Geometria dei CCD bidimensionali
Tra i CCD più comunemente usati nelle camere CCD non professionali, la
matrice di un sensore CCD può avere una forma quadra o rettangolare con pixel di forma quadra
o rettangolare.
Un pixel di forma quadra è preferibile ad uno rettangolare, solo per un fatto di
pura comodità. Infatti, quando un'immagine CCD è visualizzata sullo schermo di un PC, a
ciascun punto dello schermo corrisponde generalmente un pixel e i punti dello schermo del PC
sono generalmente equidistanti l'uno dall'altro. Se i pixel sono rettangolari, l'immagine
apparirà deformata, a meno di non operare un aggiustamento dello schermo o della finestra dello
schermo che contiene l'immagine.
Oggi ciò non è più un problema: il software delle camere CCD, al pari di
molti pacchetti software commerciali, permette di variare a piacere la geometria dell'immagine.
I pixel hanno superfici molto piccole, di alcuni micron di lato (tra i più piccoli il pixel
quadrato da 7.4 micron di lato del Sony ICX084AL impiegato nella camera CCD HX516), adiacenti
l'uno all'altro a formare una superficie a scacchiera interamente sensibile alla luce.
Le zone che dividono i pixel sono talmente microscopiche da non creare apprezzabili discontinuità
di sensibilità luminosa sulla superficie del sensore. Esistono tuttavia delle eccezioni.
Alcuni CCD Frame Transfer dotati di anti-blooming laterale (i.e. il Kodak KAF-0400L) presentano una griglia di zone morte, ossia insensibili alla luce, pari al 30% dell'intera superficie del sensore. I modernissimi CCD Interline Transfer della Sony (ICX055AL, ICX055AK, ICX084AL), dotati di un efficientissimo schema di anti-blooming e di velocissimi registri verticali di lettura e schermatura dell'immagine, presentano anch'essi una piccola zona morta, non superiore al 10% dell'intera superficie del sensore.
E' questo un piccolo inconveniente, trascurabile nell'uso più comune del CCD, ma di una qualche importanza nei lavori di astrometria e fotometria stellare, tuttavia superabile mediante un corretto campionamento dell'immagine (Teorema di Nyqist).
I CCD maggiormente utilizzati nelle camere CCD non professionali sono gli Array CCD, caratterizzati da una schiera ordinata di fotoelementi generalmente disposti per righe e colonne a formare una matrice di m x n pixel, organizzata in maniera diversa in funzione dello schema di trasferimento di carica adottato: Interline Transfer, Frame Transfer o Full Frame Transfer.
I moderni CCD Interline Transfer, quali ad esempio i chip Sony
delle camere CCD Starlight Xpress, sono caratterizzati dalla particolare disposizione verticale
dei registri di shift delle cariche elettriche accumulatesi durante il processo di integrazione.
Ad ogni colonna di elementi fotosensibili è associata una colonna adiacente di elementi
(registri) che godono in generale delle stesse proprietà. Alla fine del processo di
integrazione, le cariche accumulatesi negli elementi fotosensibili sono istantaneamente
trasferite nei registri verticali per poi essere trasferite, riga per riga, nel registro
orizzontale di lettura del segnale di uscita del CCD.
Lo shift delle cariche dai pixel ai registri verticali di lettura dura poco più di un
milionesimo di secondo. Le camere dotate di CCD Interline Transfer non hanno pertanto
bisogno di disporre, come vedremo più avanti, di otturatori elettromeccanici, in quanto di per
se dotate di efficientissimi e velocissimi otturatori elettronici. Molti anni fa criticati
dagli astronomi, perché affetti da fenomeni di aliasing dell'immagine finale e da
un'eccessiva riduzione della superficie sensibile, i moderni CCD Interline Transfer hanno
ridotto ad un minimo trascurabile questi difetti, pur mantenendo i pregi, come si vedrà più
avanti, di una migliore efficienza quantica e di un efficientissimo schema di anti-blooming.
I CCD Frame Transfer, ad esempio il Philips FT12 della camera CCD
SXL8, presentano due aree strutturalmente identiche sulla superficie del sensore. Una,
sensibile alla luce, è la zona dove si accumulano le cariche durante la posa; l'altra, schermata
con una lamina metallica, è la memoria dove al termine del processo di integrazione sarà
parcheggiata l'immagine dopo un trasferimento dall'area sensibile, di brevissima durata,
generalmente 1-2 millesimi di secondo.
Per questa ragione, anche se l'area attiva del sensore, al termine della posa, continua a
rimanere esposta al flusso dei fotoni, l'immagine salvata nella memoria schermata adiacente
sarà letta e trasferita intatta nel computer. Le camere dotate di CCD Frame Transfer non
hanno pertanto bisogno di essere equipaggiate con otturatori elettromeccanici.
I CCD Full Frame Transfer, come il noto CCD Kodak KAF0400,
impiegato ad esempio nelle camere CCD Sbig ST7, Meade 416, hanno solamente l'area attiva.
La lettura dell'immagine, al termine dell'esposizione, avviene mediante trasferimento
progressivo verticale del contenuto delle righe della matrice del sensore dalla prima riga
all'ultima, dalla quale il segnale è prelevato e campionato numericamente. Questo processo
dura in genere alcuni secondi. Se l'area del sensore, nel frattempo, non è protetta
dal flusso incidente dei fotoni, l'immagine finale sarà affetta da smearing, ossia da
un alone provocato dal continuo assorbimento di energia luminosa.
Tale inconveniente, presente in alcune camere CCD, come la Meade Pictor 216XT e la Hi-Sis 22,
può essere eliminato equipaggiando queste camere CCD con otturatori elettromeccanici in grado
di schermare opportunamente l'area attiva del sensore durante il processo di lettura e
campionamento dell'immagine.
La performance di CCD è tra i fattori più importanti di valutazione di una camera CCD. Essa è data da un insieme di elementi di natura diversa che caratterizzano il modo di funzionare del CCD. Comprendere la natura di questi elementi è essenziale, allo scopo di valutare la camera CCD alla luce dell'uso che s'intende farne. Esamineremo nel seguito gli elementi più importanti.
Non tutti i fotoni incidenti sulla superficie di un pixel del CCD
producono fotoelettroni. Il rapporto tra i fotoelettroni prodotti e i fotoni incidenti,
mediamente, per secondo e per singolo pixel, è un numero inferiore all'unità ed esprime
l'efficienza quantica del CCD. E' solitamente espresso in percentuale ed indica la
sensibilità teorica di un CCD.
La reale sensibilità è inferiore, di poco o di tanto, in funzione della qualità della camera
CCD. La sensibilità tipica di una camera CCD non professionale varia tra lo 0 e il 60%,
in base alla lunghezza d'onda dei fotoni incidenti. Misurando l'efficienza quantica per ogni
valore di lunghezza d'onda in cui dividiamo lo spettro della luce incidente, possiamo costruire
la curva di sensibilità spettrale di ogni sensore.
La curva di sensibilità spettrale è uno dei dati importanti della patente di un sensore.
Supponiamo di voler usare un CCD per riprendere un oggetto astronomico che emette radiazione
luminosa nella banda del blu o del violetto: dobbiamo conoscerne la sensibilità in quella banda,
ossia l'efficienza quantica relativa alla lunghezza d'onda del blu o del violetto. Un valore
troppo basso della sensibilità spettrale ci costringerà ad effettuare lunghe esposizioni, tipiche
della fotografia tradizionale, che impiega emulsioni di sensibilità equivalente non superiore
al 4%, nel migliore dei casi.
Un buon CCD deve possedere una curva spettrale abbastanza efficiente per lunghezze d'onda
comprese tra i 400 e i 700 nm, con valori limite di efficienza quantica non inferiori al 50%
del valore di picco. I CCD che hanno curve spettrali con picco a 530-550 nm danno
generalmente ottimi risultati.
Altro fattore importante è l'uniformità dell'efficienza quantica su tutta la superficie
del sensore. Variazioni di sensibilità tra pixel e pixel, a parità di lunghezza d'onda,
sono causa di rumore e riducono la qualità delle immagini.
5.2 Capacità elettronica per pixel (Full Well Capacity)
La capacità di accumulo delle cariche di un pixel non è illimitata.
Il valore massimo di fotoelettroni che un CCD può accumulare in un singolo pixel è una
caratteristica propria di ogni sensore. La Full Well Capacity di un CCD è un fattore
di grande importanza nella valutazione di una camera CCD. Grandi valori di capacità
elettronica di un pixel esprimono un maggior range dinamico del sensore a parità di rumore
complessivo presente nel segnale.
Ad esempio, il range dinamico di un'immagine ottenuta con il sensore Philips FT12 della
camera CCD SXL8 ha un valore di 15.000, dato dal rapporto tra 150.000 (Full Well Capacity) e 10
(Readout Noise), di gran lunga superiore al range dinamico del miglior film fotografico.
Maggiore è la capacità elettronica per pixel di un CCD, minore è l'impatto del rumore fotonico
(il flusso dei fotoni incidenti segue la legge di Poisson) con conseguente beneficio
per le immagini planetarie.
I vantaggi di una maggiore capacità elettronica sono ancor più evidenti ove si pensi che
occorrerà un maggior tempo di integrazione per saturare i pixel esposti alla luce di maggior
intensità incidente. Una volta raggiunta la saturazione, i fotoelettroni in eccesso
si spargeranno sui pixel adiacenti (preferibilmente lungo le colonne) dando luogo al noto
fenomeno del blooming. Molti CCD sono oggi dotati di anti-blooming, un dispositivo
in grado di effettuare il drenaggio automatico delle cariche in eccesso, impedendo a
quest'ultime di raggiungere i pixel adiacenti.
Il CCD è un rivelatore perfettamente lineare (la linearità è di solito
migliore dello 0.01%). In pratica ciò significa che il numero di elettroni generati in un
pixel è direttamente proporzionale alla quantità di luce incidente.
Ne derivano numerosi vantaggi rispetto alla fotografia tradizionale:
- La soglia minima di rivelazione è data dal rumore medio complessivo presente
nell'immagine. Se il rumore è molto basso il CCD sarà in grado di rivelare dettagli
estremamente deboli.
- Il CCD non soffre dell'effetto Schwarzschild e quindi manterrà la stessa sensibilità
ed efficienza quantica indipendentemente dalla durata dell'esposizione.
- La linearità consente di effettuare misure dirette di luminosità degli oggetti
(fotometria di precisione).
5.4 Corrente nera (Dark Current)
Tutti i sensori CCD hanno la proprietà di produrre e accumulare
spontaneamente elettroni, anche quando la loro superficie è schermata dalla luce incidente.
A riposo il sensore continua a produrre elettroni fino a saturare completamente i livelli di
capacità dei pixel. E' pertanto logico azzerare le cariche prodotte spontaneamente dal
sensore prima di iniziare una nuova esposizione.
Ma la produzione spontanea di elettroni continua anche durante l'esposizione.
Ciò significa che nei pixel si accumuleranno sia fotoelettroni prodotti dalla luce incidente
sia elettroni prodottisi spontaneamente. E' impossibile distinguere gli uni dagli altri.
Fortunatamente, però, gli elettroni prodotti spontaneamente hanno caratteristiche tali da
permettere di eliminare quasi interamente il loro effetto negativo.
- Il fenomeno della Dark Current è perfettamente riproducibile. In identiche condizioni
di temperatura e di durata di una esposizione, un dato sensore genera sempre lo stesso
numero di elettroni a meno di un fattore di dispersione statistica (Rumore Termico),
variabile a seconda del tipo di sensore impiegato.
- La quantità di cariche elettriche generate è quasi proporzionale al tempo di integrazione.
- La Dark Current prodotta dipende fortemente dalla temperatura del sensore: la sua
intensità diminuisce in genere di un fattore 2 per ogni 6°C in meno di temperatura del
sensore. Per questa ragione essa viene anche chiamata Corrente Termica (Thermal
Current) e le cariche prodotte si chiamano Cariche Termiche (Thermal Charges).
Possiamo quindi eliminare questo problema se operiamo in un modo appropriato.
Ecco i passi:
- Abbassare la temperatura di esercizio del sensore (i CCD sono normalmente raffreddati
termoelettricamente).
- Fare un'esposizione (Dark Frame), con il CCD schermato dalla luce, di durata uguale a quella
usata per la normale ripresa (Light Frame), avendo cura che la temperatura del sensore sia la
stessa.
- Sottrarre il Dark Frame dal Light Frame.
La procedura è approssimata, ma generalmente sufficiente per ottenere
un'immagine astronomica non eccessivamente disturbata dal Segnale Termico accumulatosi
nei pixel durante l'integrazione. Abbiano eliminato il Segnale Termico ma non gli effetti
del Rumore Termico associato alla dispersione probabilistica delle cariche termiche, un
valore pari alla radice quadrata del numero degli elettroni termici prodotti.
Il Rumore Termico non può essere eliminato. Il suo effetto principale è quello di
rendere impossibile la rivelazione di dettagli astronomici deboli la cui intensità, espressa in
numero di fotoelettroni, risulti inferiore al valore del Rumore Termico presente nell'immagine.
Fortunatamente, oggi, alcuni moderni ccd hanno una produzione di cariche
termiche piuttosto bassa anche a temperatura ambiente. Questi CCD, raffreddati a 30°C,
producono meno di un elettrone al secondo, poco più di 200 elettroni in una posa di 5
minuti.
Ciò da luogo a un Rumore Termico di meno di 15 elettroni, più o meno pari al Rumore di
Lettura (Readout Noise) dovuto all'elettronica della camera CCD, valore piuttosto basso
se confrontato con quello esibito da alcuni CCD professionali tuttora in uso.