ZICHICCHE

di Piergiorgio Odifreddi - aprile 1994


Dalle stelle della divulgazione . . .

La vita è una lunga immersione, a vari livelli di volontarietà e consapevolezza, in una cultura dalle forme molteplici: l'architettura, la scultura, la pittura, la musica, la letteratura, la filosofia ci inseguono non soltanto quando le ricerchiamo nei palazzi storici, nei musei, nei concerti, nelle biblioteche, ma anche quando passeggiamo per le città, sfogliamo i periodici, accendiamo la radio o la televisione.

Il parallelo estendersi dell'istruzione da un lato, e della capacità tecnologica di riproduzione di parole, suoni e immagini da un altro, ha prodotto un duplice ossimoro: una cultura di massa, e una massa di cultura. In particolare, produzione e fruizione sono salite in quantità e scese in qualità, in entrambi i casi drasticamente.

Un fenomeno interessante si è verificato nell'interzona fra produzione di alto livello e fruizione di basso livello: l'uso di mezzi espressivi universali quali il suono e l'immagine, o non tecnici quali il linguaggio naturale, ha creato un'illusione di comprensione di opere non difese da un linguaggio specifico, permettendo ad esempio lo stupefacente successo della musica classica presso un pubblico musicalmente analfabeta.

Poiché le scienze sono trincerate dietro un linguaggio tecnico, esse risultano in principio meno indifese delle forme di cultura citate finora: lo stesso pubblico che è disposto a restare ore in coda per conquistarsi il biglietto di un concerto di Brahms, troverebbe ridicolo fare altrettanto per una conferenza di teoria dei numeri (senza peraltro accorgersi che nel primo caso non saprà riconoscere un solo accordo, mentre nel secondo avrebbe almeno familiarità con qualche simbolo).

Le difese delle scienze stanno però ormai cedendo di fronte all'espansione del mercato della cultura, logica conseguenza della cultura del mercato. Il simbolo del mercimonio è oggi l'inserto del giornale, evoluzione moderna di quella terza pagina che Hermann Hesse stigmatizzò nel Gioco delle perle di vetro, scagliandosi contro gli intellettuali che vi contribuivano. Queste forme sono condannate senza rimedio a superficialità e frammentarietà, ma esiste anche un mercato potenzialmente piu serio, di periodici e libri.

Per colmare il divario fra scienza e pubblico è nata la figura del divulgatore, col ruolo di interfaccia fra il linguaggio scientifico e quello naturale, e con la funzione di esprimere in parole le idee che lo scienziato ha tradotto in formule. Il linguaggio scientifico non è però una perversità, bensì una necessità: se fosse possibile esprimere sempre ed in modo efficiente le idee scientifiche con parole, gli scienziati lo farebbero essi stessi.

Nella migliore delle ipotesi la divulgazione può dunque avere soltanto un successo parziale, (1) ed è esposta più delle altre forme culturali di massa alla illusione di comprensione cui abbiamo accennato. D'altra parte, nei casi in cui effettivamente abbia successo, essa può contribuire all'inserimento della scienza in una prospettiva culturale più vasta di quella in cui la confina il linguaggio scientifico.

Proprio per la difficoltà della sua realizzazione e la delicatezza della sua funzione, la divulgazione richiede talenti che da un lato sappiano far evaporare dall'aridità delle formule la loro atmosfera intellettuale, e dall'altro riescano poi a farla precipitare in una forma letteraria che ne colga l'essenza.

Tali talenti sono rari, ma esistono. Ad esempio, molti premi Nobel hanno saputo esprimere in forma piana e informale, ma rigorosa, i risultati delle loro ricerche: Albert Einstein (Relatività, 1916), Max Born (L'instancabile universo, 1936), Erwin Schrödinger (Che cos'é la vita?, 1944), Werner Heisemberg (Fisica e filosofia, 1958), James Watson (La doppia elica, 1968), Francois Jacob (La logica del vivente, 1970), Jacques Monod (Il caso e la necessità, 1970), Salvatore Luria (La vita: un esperimento non finito, 1973), John Eccles (La comprensione del cervello, 1973), Steven Weinberg (I primi tre minuti, 1977), Ilya Prigogine (La nuova alleanza, 1979), Richard Feynman (Qed, 1985), Renato Dulbecco (Il progetto della vita, 1987), Gerald Edelman (Sulla materia della mente, 1992), Francis Crick (La stupefacente ipotesi, 1994) ...

Né si deve pensare che soltanto le scienze naturali (fisica, chimica, biologia, medicina, da cui i citati premi Nobel provengono) possano essere divulgate in modo pienamente soddisfacente, semplificando tutto e solo ciò che è possibile: (2) anche la matematica, che nell'inconscio collettivo è difficoltà massima di comprensione, può essere divulgata con successo.

er fare un solo esempio, che ci avvicina al nostro obiettivo più immediato: nel 1918 Bertrand Russell scrisse in sei mesi di prigionia l'Introduzione alla filosofia della matematica, un classico di divulgazione dell'infinito e della logica. Per inciso, Russell ottenne nel 1950 il premio Nobel per la letteratura, pur senza aver mai prodotto opere propriamente letterarie.

. . . alle stalle della volgarizzazione

Abbiamo citato con dovizia premi Nobel perche l'autore del presente volume, benché non (ancora) insignito lui stesso del premio, ha spesso organizzato convegni a cui essi accorrevano come mosche, e nella nostra memoria la sua figura era prima d'oggi a loro legata.

Il suo nome è ben noto al pubblico, ma per coloro a cui esso fosse sfuggito possiamo ricordare brevemente, dalle note di copertina, che oltre ad essere "scienziato di fama mondiale", più precisamente "autore di molte scoperte nello studio delle Forze Fondamentali della Natura", egli si distingue "per la sua straordinaria capacità di spiegare con un linguaggio semplice le grandi conquiste del pensiero scientifico, senza nulla togliere al loro rigore concettuale".

Il Professor Zichichi, perche possiamo ormai svelare che di lui si tratta, ha messo queste sue doti al servizio dell'infinito (matematico), ed ha effettivamente scritto un libro straordinario, dal titolo in verità un poco prevedibile, ma la cui trama ci ha tenuti col fiato sospeso fino alla conclusione: un vero thriller della matematica.

L'autore vuol dimostrare di saper trattare alla pari (più precisamente, da par suo) non solo con i contemporanei grandi della scienza, ma anche con i mitici grandi della matematica: egli ha quindi scelto come personaggi della sua avvicente storia Pitagora ed Euclide fra gli antichi, Georg Cantor, Bertrand Russell e Kurt Gödel fra i moderni.

A Pitagora viene attribuita la scoperta dell'esistenza di numeri irrazionali, cioè di numeri reali non frazionari o, equivalentemente, senza sviluppo decimale periodico. Il professor Zichichi non sembra essere molto a suo agio con gli irrazionali, perché parla di "numeri frazionari (razionali o irrazionali)" (p. 134), e crede che lo sviluppo di un irrazionale sia "una successione di numeri senza alcuna regolarità e senza sosta" (pp. 191 e 194). (3) Ma a sua (non richiesta) scusante, egli aggiunge l'interessante osservazione che "alla fisica bastano i numeri razionali" (p. 242).

Il ruolo di Pitagora in questa storia è secondario, mentre quello di Euclide è più importante. Qualunque studente di scuola media sa che due rette si dicono parallele se non si incontrano mai, e che il quinto postulato di Euclide asserisce l'unicità della parallela ad una retta data passante per un punto fuori di questa. Evidentemente, però, non ogni professore lo sa: il nostro, in particolare, sostiene che "col quinto assioma di Euclide si dice che due rette parallele non si incontreranno mai: è necessario un atto di fede" (p. 217).

Non si può che concordare sull'ultima parte di questa affermazione, visto che noi non credevamo ai nostri occhi quando abbiamo letto la prima! Ad Euclide si attribuisce anche la dimostrazione del fatto che ci sono infiniti numeri primi o, equivalentemente, che non esiste il più grande numero primo. Di fronte a tali pedanti formulazioni, il cui unico merito è di essere corrette, la penna del bravo divulgatore freme, e produce riformulazioni forse matematicamente insensate, ma letterariamente durature: "Euclide riesce a dimostrare che non può esistere il più grande numero primo. Pertanto non c'è limite a quanto grande possa essere il più grande dei numeri primi" (pp. 206, 226).

Con Cantor entra in scena il personaggio principale della storia dell'infinito matematico. Egli trovò un modo per paragonare le grandezze di due insiemi qualunque, (4) e scoprì che non tutti gli insiemi infiniti hanno la stessa grandezza: ad esempio, l'insieme dei numeri reali ha una grandezza maggiore dell'insieme dei numeri interi. Cantor si chiese se queste due grandezze fossero immediatamente successive, e il problema divenne noto come ipotesi del continuo (perché l'insieme dei numeri reali è anche chiamato continuo).

Credendo che la grandezza del continuo sia immediatamente successiva a quella dell'insieme dei numeri interi per definizione (pp. 140, 167, 228), il professor Zichichi si ritrova legato mani e piedi, apparentemente impossibilitato a formulare l'ipotesi del continuo. Ma l'Houdini della divulgazione non solo riesce a liberarsi: egli raggiunge la propria apoteosi, chiedendo se "tra un livello di infinito e il successivo non esistono altri livelli d'infinito" (pp. 142, 229), e scambiando così una sua improvvida domanda (a cui egli stesso avrebbe potuto rispondere, semplicemente consultando un dizionario alla voce "successivo") con uno dei più profondi problemi della matematica moderna.

Cantor non si era limitato a dimostrare che esistono due livelli di infinito: in realtà, la sua dimostrazione che l'insieme dei numeri reali ha una grandezza maggiore dell'insieme dei numeri interi è perfettamente generale, e prova che per ogni grandezza di infinito ne esiste una maggiore. Ormai possiamo attenderci che ai teoremi di Cantor corrispondano problemi del professor Zichichi, ma ci è ancora difficile prevedere quali. E infatti, ecco l'imprevedibile: a costruire livelli di infinito sempre piu alti "Cantor ci avrebbe provato con tutte le sue forze, illudendosi di riuscire in questa impresa titanica, ma in verità formulando una teoria intuitiva. E non rigorosa, come lui avrebbe sperato" (p. 135).

Possiamo qui tirare un sospiro di sollievo: se la teoria di Cantor non è rigorosa secondo i soggettivi criteri del professor Zichichi (ben testimoniati dalle citazioni precedenti, e più generosamente dispiegati nell'intero libro), essa certamente lo è secondo gli oggettivi criteri dei matematici. Ci rimane pero una curiosità psicoanalitica: quale pecca di rigore avrà mai scovato il pigmeo della divulgazione nell'opera del gigante della teoria degli insiemi?

Ed ecco la risposta: "i nuovi insiemi infiniti portano al concetto di classe delle classi" (pp. 220, 223). Non c'é dubbio che se il teorema di Cantor richiedesse in qualche modo la classe di tutte le classi, ci sarebbe effettivamente un bel problema: la fama di Russell è infatti basata sulla scoperta che tale classe è contradditoria. (5) Il professor Zichichi, strano a dirsi, sa pure lui che la classe di tutte le classi e contradditoria, e si trova quindi di fronte al problema di dover spiegare come sia possibile che un teorema si basi su una contraddizione. (6) Dopo tutti gli scivoloni precedenti egli è comunque ormai in caduta libera, e ci annuncia che "la classe di tutte le classi si puo benissimo costruire, a patto di non pretendere che essa sia la conseguenza rigorosamente logica di una costruzione assiomatica: prendiamo come assioma che deve esistere la classe delle classi" (p. 224).

Ma la matematica non aborriva forse la contraddizione, come la natura aborre il vuoto? Si, veniamo a sapere, ma solo fino al 1931: "per millenni l'uomo aveva pensato che per una affermazione possono esistere solo due possibilita: o è vera, o è falsa. Non puo esserci una terza possibilità. E questo il famoso principio del terzo escluso. Gödel scoprì invece che, nel cuore della Logica Matematica, c'è la terza possibilità" (p. 214).

Non vorremmo essere accusati di malafede, visto che abbiamo fornito una citazione sul fallimento del principio del terzo escluso ("una affermazione è o vera o falsa"), e non una sul fallimento del principio di non contraddizione ("una affermazione non può essere sia vera che falsa"). Al lettore perplesso dobbiamo confessare che lo siamo anche noi ma che, per qualche motivo, il professor Zichichi ci assicura che la scoperta di Gödel "permetteva di riflettere in modo nuovo sull'opera di Cantor" (p. 224).

Per completare il quadro, ci tocca però ancora dire in che cosa consiste questa scoperta di Gödel. In parole povere (nostre): che per ogni sistema matematico non contradditorio e sufficientemente potente, esistono formule vere che non sono dimostrabili, cioé verità che non sono teoremi. (7) In parole ricche (sue): che "sarà sempre possibile trovare un teorema che nessuno sarà in grado di dimostrare: vero oppure falso" (p. 148).
È vero che il pubblico dei media è assuefatto a stupri linguistici quali "teorema Calogero" o "teorema Buscetta", in cui la parola 'teorema' viene usata come sinonimo di affermazione non dimostrabile. In matematica essa significa però l'esatto opposto, e assimilare le argomentazioni di Gödel a quelle di un grande inquisitore o di un mafioso pentito trascende la pessima divulgazione: è puro vilipendio alle istituzioni matematiche.

Si avvicina comunque alla fine il vangelo dell'infinito secondo Zichichi, in venti grandi tappe, di cui la prima è cosi sintetizzata dall'evangelico divulgatore, evidentemente in vena autobiografica: "L'uomo appare sulla terra. Non ha ancora inventato il linguaggio. Si esprime gesticolando" (p. 225).

Conscio che "parlare d'infinito è un'impresa veramente ardua" (p. 176), e che "a questo punto il lettore potrebbe essere interessato a sapere come stanno le cose" (p. 219), il professor Zichichi volge in chiusura un ultimo sguardo alle macerie sotto cui ha seppellito il suo malcapitato argomento, e non può non ammettere che "in effetti il discorso va anzitutto approfondito, eppoi ampliato" (p. 242). Benché ignara della mancanza principale del libro (la correttezza, ben prima della profondità e dell'ampiezza), una tale sincerità ci rende comunque l'autore simpa(te)tico, e ci spinge a cercare di concludere in tono positivo.

Pensavamo quindi di dire che non avevamo in precedenza mai letto un thriller in cui l'autore, pur non comparendo fra i personaggi, è l'assassino; ma abbiamo scoperto nell'Ouvroir de Litterature Potentielle che questa trovata letteraria era già stata escogitata. Forse è originale una trama finita con una vittima infinita, ma anche qui il ricordo di Kafka non ci permette di arrischiarci.

Solo per mancanza di argomenti, quindi, e non di buona volontà, siamo costretti a chiudere in tono negativo. Per restare sul poliziesco, vorremmo osservare che se sei mesi di galera sono stati per Russell lo stimolo per un ottimo libro sull'infinito, essi potrebbero anche essere per il professor Zichichi una giusta punizione per uno pessimo. Ma forse, di questi tempi, non è bene scherzare su certe cose.

Bibliografia

Il lettore che abbia letto il libro del professor Zichichi è ormai infettato, e necessita di antidoti immediati; quello che voglia leggerlo ed uscirne indenne, dovrà immunizzarsi con potenti vaccini. Ad entrambi prescriviamo:

Bertrand Russell, Introduzione alla filosofia della matematica, 1918.
Paolo Zellini, Breve storia dell'infinito, 1980 (Adelphi).
Rudy Rucker, La mente e l'infinito, 1982 (Muzzio, 1991).
Gabriele Lolli, Dagli insiemi ai numeri, 1994 (Bollati Boringhieri).

--------------------------------------------------------------------------------

Note:

0 - Recensione di Antonino Zichichi, L'infinito, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1994, pp. 257.

1 - Stiamo ovviamente parlando di successo teoretico, non commerciale: le due accezioni non sono necessariamente disgiunte, ma certo neppure necessariamente collegate.

2 - Si ricordi l'introduzione alla Critica della ragion pura: "parecchi libri sarebbero stati molto più chiari, se non avessero voluto essere tanto chiari".

3 - La confusione qui sta nel fatto che la periodicità delle cifre è una possibile regolarità, ma non la sola. Esistono effettivamente numeri irrazionali il cui sviluppo decimale non presenta alcuna regolarità, ad esempio nel senso che nessun computer può generarne le cifre, ma essi non si trovano fra i numeri irrazionali di uso comune (citati dal professor Zichichi).

4 - Due insiemi A e B si dicono avere la stessa grandezza se è possibile far corrispondere i loro elementi in modo che a ciascun elemento di A corrisponda uno ed un solo elemento di B, e viceversa.

5 - Una metafora del paradosso di Russell, che ne coglie l'essenza, è la seguente: se chiamiamo autologico un aggettivo che descrive una proprietà che esso possiede (ad esempio, 'italiano' è autologico perche fa parte della lingua italiana), ed eterologico un aggettivo che descrive una proprietà che esso non possiede (ad esempio, 'francese' è eterologico perché non fa parte della lingua francese), e ci chiediamo se 'eterologico' sia autologico o eterologico, ci accorgiamo che esso non puo essere né l'uno né l'altro. Infatti, se 'eterologico' fosse autologico, descriverebbe una proprietà che esso possiede, e quindi dovrebbe essere eterologico; e se fosse eterologico, descriverebbe una proprietà che esso non possiede, e quindi non potrebbe essere eterologico. Nel caso del paradosso di Russell, le classi prendono il posto degli aggettivi, e le proprietà di appartenere a se stesse oppure no prendono il posto delle proprietà di essere autologico o eterologico. Lo stesso ragionamento mostra allora che la classe delle classi che non appartengono a se stesse non puo né appartenere, né non appartenere a se stessa.

6 - Sia chiaro che il problema è completamente inesistente: si confonde qui fra il teorema di Cantor (la cui dimostrazione è perfetta come Cantor l'ha fatta) e la nozione intuitiva di insieme (che, a causa del paradosso di Russell, richiede delle limitazioni).

7 - Una metafora del teorema di Gödel, che ne coglie l'essenza, è la seguente. Un romanzo ci fa conoscere una realtà possibile, i cui aspetti espliciti si possono leggere direttamente nel testo, ed i cui aspetti impliciti si possono dedurre mediante analisi ed esegesi di esso. Nessun testo descrive una realtà sufficientemente complessa in modo completo: ad esempio, i Promessi sposi non determinano quanti bambini abbiano avuto Renzo e Lucia ("ne vennero poi col tempo non so quant'altri, dell'uno e dell'altro sesso"). Se il romanzo descrive una realtà possibile ma fantastica, non ha senso chiedersi se i fatti da esso lasciati indecisi siano veri o falsi; nell'esempio: quanti bambini abbiano avuto Renzo e Lucia. Se invece il romanzo descrive una realtà di fatto, allora si può dire che gli aspetti non determinati dal romanzo sono comunque determinati dalla realtà, e ci saranno quindi fatti veri non descritti (né esplicitamente, né implicitamente) dal romanzo. Romanzi, aspetti espliciti ed impliciti, e critica letteraria corrispondono a sistemi matematici, assiomi e teoremi, e dimostrazioni. Il teorema di Gödel dice che nessun sistema matematico può descrivere una realtà matematica possibile e sufficientemente complessa in modo completo. Se si crede che i sistemi matematici descrivano una realtà di fatto (una posizione detta platonismo), allora ci saranno formule vere che non sono teoremi.

Per maggiori informazioni visitate http://www.vialattea.net/odifreddi/zichichi.htm.


Vai ai Comunicati
Vai ai Testi del CAST
Vai a Fotografia, ccd e ricerca
Vai ai Notiziari

Vai alla Homepage del CAST