Di seguito trascriviamo il capitolo riguardante la storia dell'anno romano, testo estratto dall'articolo "Nomi e numeri del calendario" di Gianfranco Benegiamo.
I Romani non si sono mai particolarmente distinti nelle scienze
astronomiche e ciò ha avuto ripercussioni anche sulle modalità da loro adottate per la ripartizione
del tempo, a lungo basata sulla imprecisa trieteride che prevedeva ogni due
anni, per completare il ciclo solare,
l'inserimento di un tredicesimo mese, Mercedonius, dedicato ai lavoratori.
I decemviri tentarono di sostituire questo sistema con quello della octaeride,
allora in uso nell'Attica, calcolato nella seconda metà del VI Secolo a.C. da Cleostrato
di Tenedo. L'astronomo greco, per recuperare la differenza di 11 giorni e 1/4, tra anno
lunare e solare, aveva previsto di intercalare 90 giorni ogni otto anni con l'aggiunta di un mese
supplementare al 3°, 5° e 8° anno di ogni
ciclo, ottenendo così una lunghezza media di 365,25 giorni.
I riformatori romani, sia per imprevidenza che per scrupoli religiosi, non vollero comunque accorciare a sufficienza il mese di febbraio: avendo un particolare riguardo alla festa del dio Termine, celebrata appunto nel periodo che si sarebbe dovuto periodicamente sopprimere, e ciò produsse un rilevante scostamento, tra stagioni e calendario, a cui pose rimedio la riforma giuliana.
Nel Lazio, come tra i Sabelli e gli Etruschi, il
mese era suddiviso in settimane lunari che, vista la loro durata media di 7 giorni
e 3/8, si alternavano tra cicli di 7 e di
8 giorni.
Soltanto le ultime tre settimane dei
mesi romani avevano una lunghezza costante e quindi, per dare a ciascuna di esse il numero di
giorni richiesto, occorreva dichiarare, di volta in volta, la durata della prima: da tale
proclamazione l'inizio del mese ebbe il nome di giorno delle grida, Kalendae, da cui
deriva il termine usato per indicare la ripartizione civile dell'anno.
Il primo giorno, degli otto che formavano la seconda settimana di ogni mese, era chiamato nones.
Il primo dei sette giorni che costituivano le terze settimane conservava il vecchio nome di
idus ed era il 15° a marzo, maggio, luglio e ottobre, il 13° negli altri mesi: questa
ricorrenza, inizialmente coincidente con il plenilunio, era celebrata dal flamen Dialis
sacrificando una pecora bianca (ovis idulis) a Giove, dio del cielo e della luce.
Il termine idi può derivare da dies (giorno) oppure dall'etrusco iduare, corrispondente al latino dividere, o ancora dal dio Fidius, indigitazione di Giove, protettore della parola data; i giorni che intercorrevano dalle idi alle calende successive si indicavano con la formula ante diem, seguita dal numero ottenuto computando il giorno di partenza e quello di arrivo.
L'esigenza di far coincidere il plenilunio con le Idi, distanti sempre otto giorni dalle None, è la ragione per cui queste ultime non avevano delle date fisse; solo l'introduzione di mesi con una lunghezza costante portò alla loro disposizione in date prestabilite.
Originariamente i mesi romani avevano una lunghezza correlata al ciclo
lunare e all'inizio di ogni mese veniva stabilito il numero di giorni che mancavano al Primo
Quarto e dunque la posizione delle None: il sistema permetteva, attraverso continui
aggiustamenti, di far coincidere le Idi con i pleniluni.
La durata dei mesi romani venne fissata intorno al V secolo a.C. e da allora questi
"incontri" diventarono solo occasionali.
Nell'antica Roma esistevano consorzi, depositari delle arti e
delle scienze, ai quali era affidata la conservazione delle formalità del culto, di estrema
importanza per la vita politica della città; tra i più importanti c'erano quello degli
Auguri, preposti ad interpretare il significato del volo degli uccelli, e quello dei
Pontefici, addetti a dirigere la costruzione e la rottura del ponte sul Tevere.
Questi ultimi erano gli ingegneri che possedevano il segreto delle misure e delle cifre,
per cui fu loro affidato il compito di gestire il calendario, di annunciare al popolo le
fasi della Luna e
i giorni festivi, di curare che ogni atto religioso avesse luogo nel momento dovuto.
I giorni in cui era consentito trattare gli affari pubblici venivano detti fasti, mentre
quelli in cui era lecito radunare comizi prendevano il nome di comitales; nei giorni
nefasti, invece, era impedito l'inizio di nuove imprese e l'esecuzione di sacrifici.
I giorni nefasti, dedicati ai riti funerari e alle purificazioni, comprendevano tra gli altri quelli successivi a calende, none, idi e anniversari di gravi calamità pubbliche. Il calendario del periodo repubblicano, risalente ancora a quello dei decemviri, per la sua imprecisione raggiunse uno sfasamento di quasi tre mesi rispetto alle stagioni reali e ciò portò a celebrare, per esempio, la festa della fioritura l'11 luglio invece che il 28 aprile.