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Stardust

di Lucio Furlanetto


La missione Stardust (polvere di stella) partì alle 04:04 (ora della costa EST, corrispondenti alle 09:04 UT) del 7 febbraio 1999 dal Kennedy Space Center di Cape Canaveral, sollevata da un razzo vettore Delta per intercettare vari oggetti astronomici in una complessa serie di flyby e gravity assists. La sonda volò in una certa porzione dello spazio interplanetario dove intercettò la polvere presente tra i pianeti nel periodo marzo-maggio 2000, mentre il 15 gennaio 2001 effettuò un gravity assist con la Terra per acquisire velocità a spesa (infinitesima) del nostro pianeta, sorvolando a soli 6.000 km la superficie del nostro pianeta alle 11:15 UT. Il flyby indirizzò la navicella spaziale verso l'asteroide Annefrank, dal quale passò distante solamente 3.300 km il 2 novembre 2003 (alle 01:50 UT). Il sorvolo ravvicinato permise di scoprire che l'ogetto è di forma irregolare, approssimativamente di 8 km di diametro e di testare gli strumenti, i quali trasmisero i dati al centro di controllo mediante il sistema di collegamento interplanetario della NASA, il Deep Space Network.

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    L'orbita

Il disegno qui sopra mostra l'orbita della sonda Stardust e i vari flyby che ha avuto durante i sei anni di durata della missione.

Cliccando l'immagine l'aprirete a 1016 x 713 pixel.

Image credit: NASA/JPL/Caltech

Il 2 gennaio 2004 la sonda incontrò le nubi di polvere e di gas presenti nella chioma della cometa 81P/Wild 2, che attraversò alla velocità relativa di 21.960 km/h, una velocità corrispondente a 6,1 km/s, abbastanza bassa in termini astronomici da non provocare danni rilevanti alla navicella. La telecamera di bordo permire di seguire il moto del nucleo della cometa, pertanto la Stardust catturò le particelle emesse da poco dal nucleo della cometa. In aggiunta a questo la telecamera di bordo acquisì un certo numero d'immagini del nucleo e dell'ambiente circostante, mentre tutti gli strumenti imbarcati prendevano misure delle proprietà fisiche della cometa. Al momento dell'attraversamento della chioma della cometa, la navicella "estrasse" un congegno simile a una racchetta da tennis, il quale conteneva un nuovo materiale, battezzato aerogel, estremamente leggero, ma sufficientemente denso da riuscire a fermare le minuscole particelle di polvere che lo colpivano senza alterarle. Una volta terminato l'attraversamento della chioma cometaria e la conseguente cattura di quel materiale, la "racchetta" con le cellette riempite di aerogel si è chiusa dentro un particolare contenitore (che in seguito si è staccato dalla navicella poco tempo prima del rientro sulla Terra).

Stardust instruments: 82 KB; click on the image to enlarge   Gli strumenti

Il disegno mostra la disposizione degli strumenti e dei principali sistemi della sonda Stardust.

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Image credit: NASA/JPL/Caltech

Facendo qualche considerazione sui programmi della NASA, è da riportare che la missione fu selezionata definitivamente solo nel 1995, quindi è stata portata sulla "rampa di lancio" in soli quattro anni. E' costata 200 milioni di US$, quindi fa parte del programma Discovery di esplorazione del sistema solare a "basso costo" ed ha fruttato un notevole ritorno in termini di dati, immagini e esperienza di gestione per tali missioni interplanetarie. Per ottenere ciò, con una cifra tutto sommato bassa per una missione di tale complessità e multiobbiettivo, essa ha sfruttato un veloce sviluppo del progetto, un affidabile vettore Delta per il lancio (mentre la missione New Horizons, partita il 19 gennaio 2006, ha utilizzato un vettore Atlas) ed è stata frutto d'una collaborazione tra la National Aeronautic and Space Administration (NASA), università e industrie private. I principali enti e aziende coinvolti sono stati la Lockheed Martin Astronautics di Denver, Colorado (che ha disegnato, costruito e messo in funzione la navicella), il Jet Propulsion Laboratory (JPL) di Pasadina, California (che ha realizzato la camera visuale per la navigazione) e il tedesco Max Plank Institute che ha realizzato l'analizzatore in tempo reale della composizione della polvere. Il dr. Donald Brownlee, dell'Università Washington di Seattle (Washington), è stato lo Stardust's principal investigator, mentre il dr. Peter Tsou, del Jet Propulsion Laboratory di Pasadina, è stato il deputy principal investigator. La missione è stata gestita dal Jet Propulsion Laboratory per conto dell'Office of Space Science della NASA di Washington, D.C. Al quartier generale della NASA Barry Geldzahler è stato lo Stardust program executive e il dr. Thomas Morgan è stato il program scientist. Al Jet Propulsion Laboratory di Pasadina Thomas Duxbury è stato project manager e Robert Ryan è stato il mission director. Ricordo che il JPL è una divisione del California Institute of Technology di Pasadena, California.

La missione Stardust, come altre precedenti della NASA, terrà occupata la comunità scientifica per decenni, in quanto le misure fatte oggi, in futuro potranno venire rifatte con nuovi tipi di strumenti o metodiche, portando a risultati ancora migliori, anche se sarà limitata dal piccolo numero di particelle e atomi rimasti intrappolati nell'aerogel. Lo stesso avvenne con le rocce lunari prelevate sul nostro satellite naturale dalle sei missioni Apollo che vi sbarcarono, potendo disporre negli ultimi anni di macchine analizzatrici nemmeno pensate nel lontano 1969, quando avvenne il primo sbarco!
Il settore che beneficerà maggiormente del materiale riportato a terra sarà ovviamente quello delle comete, com'é ovvio dato che la missione aveva questo come scopo principale. Il fatto che le comete trascorrano gran parte della loro vita nelle parti più fredde del sistema solare a causa della loro orbita fortemente ellittica, garantisce che il materiale interno che le compone sia stato poco processato nel corso della vita del nostro sistema solare. Si spera che l'analisi di quello riportato a terra dalla Stardust chiarisca alcuni dei misteri che ancora affliggono la conoscenza dell'origine del Sole, dei pianeti e degli altri corpi.

Il materiale esterno del nucleo d'una cometa inizia a riscaldarsi a circa 700 milioni di km di distanza dal Sole, corrispondenti a circa 4,7 unità astronomiche, quando l'energia della radiazione solare che vi si deposita inizia a far sublimare lo strato di ghiacco superficiale, il quale si disperde tutt'intorno al nucleo, portando via con sé anche particelle di roccia e piccoli frammenti rocciosi. L'insieme del gas formatosi dalla sublimazione del ghiaccio assieme alle particelle di polvere e alle piccole rocce forma una nuvola di materiale chiamata chioma cometaria. In realtà la chioma è proprio ciò che vediamo per primo e di più d'una cometa, dato che il nucleo al suo interno non si può vedere attraverso la chioma ed è troppo debole quando la cometa non è ancora attiva (e quindi a una grande distanza dal Sole).

Il materiale che si disperde dietro il moto della cometa forma le varie code, quella di ioni d'idrogeno (eventualmente suddivisa in parecchi filamenti) e una o più code di atomi neutri di sodio, scoperte per la prima volta nella cometa Hale-Bopp nel 1997, come riporato nel bel convegno che organizzammo nel 1997 con Gabriele Cremonese, Giannantonio Milani e Gabriele Vanin. La cometa 81P/Wild 2 è considerata un buon banco di prova per le teorie esposte sino ad oggi, in quanto è un corpo che ha un lungo periodo orbitale, cambiato solo di recente nell'attuale e quindi è stata esposta poche volte a un'intensa radiazione solare.

Reentry of Stardust: 44 KB; click on the image to enlarge   Rientro

L'immagine mostra il bolide, ottanta volte più luminoso di Venere, che si è formato al rientro nell'atmosfera del modulo della sonda Stardust che conteneva l'aerogel con le particelle di polvere e gli atomi intrappolati in esso.

Cliccando l'immagine l'aprirete a 960 x 1200 pixel.

Image credit: NASA TV

I dati degli strumenti, in particolare quelli dello spettrometro di massa degli impatti delle particelle, hanno permesso di stabilire il numero e la composizione delle particelle della polvere interplanetaria nella regione di spazio attraversata e quella delle particelle della chioma di questa cometa. La camera di bordo ha effettuato delle eccellenti riprese dello spazio intorno alla cometa, permettendo di stabilire dei valori più precisi sulla dimensione e forma del nucleo. Anche gli altri strumenti hanno lavorato egregiamente, stabilendo in particolare la distribuzione della materia nello spazio e nel tempo, determinando quindi un modello tridimensionale della chioma. Come accennato in precedenza, prima dell'ultimo flyby con la Terra la navicella ha rilasciato una piccola capsula contenente il materiale prelevato nella coda della cometa, la quale è giunta integra a terra il 15 gennaio 2006. Il sito dove è precipitata, in base alla precisa traiettoria impostata dal piano di volo, si trova in una zona desertica dello Utah (USA), nella piana del gran lago salato.


Il rientro della Stardust (da NASA TV)

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Arrivo a terra

In alto si vede la capsula della Stardust che sta attraversando l'atmosfera come un brillantissimo bolide luminoso. In basso a sinistra si vede che i paracadute si stanno afflosciando dopo l'atterraggio avvenuto nel deserto dello Utah (USA). Qui sopra a destra potete vedere gli applausi del personale della sala controllo che sta festeggiando la buona riuscita della missione. Ora i tecnici preleveranno la capsula che trasporta l'aerogel con le prezione particelle della cometa Wild 2 per analizzarla in laboratorio.
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In un secondo momento è stato diffuso anche un video registrato da un aereo della NASA che in volo seguiva le fasi del rientro della sonda; chi desiderasse vederlo clicchi qui.

Image credit: NASA TV/JPL


Il fatto che la missione abbia completato il suo percorso attraverso una vasta regione del sistema solare e sia rientrata integra a terra mediante aerofrenata è già di per sé un grosso successo, in quanto questo ha testimoniato la bontà del piano di volo della missione. Il delicato materiale che avrebbe dovuto trattenere i minuscoli granelli di polvere della coda della cometa, chiamato aerogel, ha dimostrato la sua efficacia trattenendone al suo interno un certo numero, permettendo così di portare a noi del materiale "appena" rilasciato dal nucleo cometario, materiale che è tra i più vecchi analizzati fino ad oggi, ma con un'importante proprietà: esso non è stato processato da un processo orogenetico, come avvenne per le rocce diventate lave della Terra, Marte, Venere, Mercurio o Luna, o di altro satellite del sistema solare. In aggiunta a ciò sul nostro pianeta, come su Marte, Venere e Titano, l'atmosfera trasforma rocce e liquidi presenti, quindi nessun materiale presente sul nostro pianeta è più "originario", ma è stato tutto trasformato in questi 4,65 miliardi d'anni.


Il trasporto della Stardust al laboratorio (da NASA TV)

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Arrivo in laboratorio

La capsula della Stardust contenente le celle ripiene di aerogel è giunta al laboratorio. Dopo le operazioni di pulizia esterna, verrà portata in laboratorio e là aperta: finalmente mostrerà il suo contenuto e si saprà se la missione avrà avuto successo.

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Image credit: NASA TV


La prima ispezione del modulo contenente l'aerogel (da NASA TV)

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Il rientro a terra

La mattina del 15 gennaio 2006 la sonda interplanetaria Stardust è rientrata a terra; appena ispezionato il guscio esterno, per accertarsi che non avesse subito danni a causa del rientro nell'atmosfera, è stata portata nel laboratorio dove doveva venire aperta. Dopo le necessarie operazioni di decontaminazione del guscio e l'estrazione del contenitore delle cellette, nei fotogrammi del filmato NASA si vede che in una delle cellette è stato subito trovata della polvere della cometa Wild 2 (visibile sul monitor negli ultimi tre fotogrammi in basso a destra). La missione è perfettamente riuscita!

Cliccando ciascuna immagine l'aprirete a circa 295 x 220 pixel.

Image credit: NASA TV


Per approfondire l'argomento consiglio di visitare i seguenti siti:
La missione Stardust
Homepage della missione
Current mission
Le missioni al Kennedy Space Center
News from Kennedy Space Center
Archivi: le missioni dal 1999 al 2004
NASA Homepage
NASA Television

ESA Television
Euronews (in italiano)

Chi desidera maggiori informazioni sul centro di ricerca JPL può visitare la sua homepage.


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Pagina caricata in rete 29 gennaio 2006; ultimo aggiornamento (6°): 12 settembre 2007